24 Settembre 2021 - 17.11

Referendum: “harakiri” della Politica

di Umberto Baldo

Sono convinto che i componenti le Commissioni Affari Costituzionali e Ambiente della Camera non si siano resi ben conto di cosa approvavano, quando hanno votato “Si” all’unanimità ad un emendamento del cosiddetto “Decreto Semplificazioni”.

Credetemi che è un fenomeno meno raro di quanto possiate immaginare nella nostra politica, ed un esempio eclatante a mio avviso è la Convenzione di Dublino sulla responsabilità dello Stato di primo approdo dei migranti, che è stata nel tempo accettata e sottoscritta da vari Governi (da Andreotti a Berlusconi a Letta), salvo poi accorgersi che non si trattava certo di un grande affare per l’Italia.

Viene quindi da chiedersi in cosa fossero affaccendati gli onorevoli quando hanno discusso (?) un oscuro emendamento alla legge di conversione del Decreto 77/21, presentato dal deputato di Più Europa Riccardo Maggi, su cui il Governo aveva espresso parere negativo!

E cosa prevedeva quell’emendamento?

Una cosa piuttosto innovativa, e cioè la possibilità di raccogliere le firme dei sottoscrittori di una richiesta di referendum in modalità “on line”, grazie alla firma digitale.

Via quindi i soliti banchetti nelle piazze, via le carte e le scartoffie per firmare gli appositi moduli, via gli autenticatori, via tutta la farraginosa procedura di raccolta firme ancora regolata da una legge vecchia di 50 anni.

Il tutto soppiantato dalla “firma elettronica qualificata”, che grazie ad un apposito processo informatico equipara la firma digitale a quella raccolta fisicamente al banchetto, garantendone l’autenticità.

Il tutto reso possibile dall’introduzione dello Spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale), che si calcola sia ormai in possesso di circa 20milioni di italiani, e che di recente è stato massicciamente utilizzato per scaricare il Green Pass.

Solo a cosa fatte, solo quando questa “innovazione” è diventata legge, i nostri politici si sono accorti della portata di quello che avevano approvato.

Perchè, comunque la si veda, la raccolta delle firme da remoto in forma digitale rischia di cambiare il tradizionale rapporto fra i cittadini ed i loro rappresentanti in Parlamento.

Nel nostro ordinamento giuridico costituzionale il ricorso al Referendum è di fatto una sorta di extrema ratio, cui ricorrono forze politiche (in senso lato) e sociali quando ritengono che il sistema dei Partiti non sia in grado di risolvere una o più questioni importanti per il Paese.

In generale l’istituto del Referendum popolare è mal visto dai Partiti, che tradizionalmente mal sopportano l’idea che il corpo elettorale possa “metterci il becco” nell’elaborazione dei provvedimenti legislativi.

La logica dei nostri Demostene è sempre stata “voi ci votate, e quando siamo in Parlamento vogliamo essere liberi di fare i nostri giochi, le nostre alchimie, le nostre mediazioni, senza essere disturbati. Se vi va bene, bene, se non vi va bene chi se ne frega!”.

Il problema è che nella politica nostrana le divisioni, le lotte, le contrapposizioni, hanno raggiunto un livello patologico tale, che certi progetti di riforma languono in Parlamento per anni, se non per decenni, trascinandosi da una legislatura all’altra, senza mai trovare uno sbocco.

E non è certo un caso se le prime richieste di referendum con le nuove modalità riguardino temi di cui si discute da anni o decenni, tipo il fine vita o la legalizzazione della cannabis, senza che si sia mai arrivati ad una decisione, nonostante, come nel caso del fine vita, persino la Corte Costituzionale abbia invitato il Parlamento a fare il proprio dovere di legislatore.

Non mi sento neppure di parlare di “ammuina”, bensì di volontà di fermare tutti i temi divisivi nelle nebbie dei riti parlamentari, senza curarsi del fatto che la società italiana nel frattempo matura, e quasi sempre è più avanti di coloro che istituzionalmente dovrebbero rispondere alle sue esigenze.

E che certi temi siano particolarmente sentiti dai cittadini lo dimostrano i tempi ristrettissimi in cui sono state raccolte le firme, (e superate ampiamente le soglie richieste dalla legge) nei referendum per la legalizzazione della cannabis, e sul fine vita, e soprattutto che oltre la metà delle sottoscrizioni digitali provengano da ragazzi con meno di 25 anni, che si sono così scrollati di dosso le accuse di torpore e di indifferenza per i temi politici, di cui vengono spesso accusati.

E che i nostri parlamentari pensassero ad altro quando votavano questa riforma lo testimoniano a mio avviso le levate di scudi e gli sciami di polemiche con cui adesso, a buoi scappati, Lor Signori manifestano la necessità di riformare lo stesso istituto referendario, nel senso di rendere più difficile la sua attivazione (alzando ad esempio il numero delle firme richieste).

Confermando, come se ce ne fosse bisogno, la contrarietà dei nostri leader di Partito ad ogni forma di maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica.

E che quello che pensano e vogliono i cittadini sia sempre stato trattato con poca considerazione dal “Palazzo”, lo abbiamo visto nel tempo, quando alcune scelte popolari, approvate con Referendum, sono state disattese nella prassi od aggirate, come è avvenuto, per limitarsi a due soli casi, con il finanziamento pubblico ai Partiti o con la privatizzazione della Rai.

Certo lo so anch’io che esiste il pericolo che facilitare l’esercizio del diritto referendario finisca per indebolire ulteriormente il sistema parlamentare.

Lo so anch’io che esiste il rischio che prenda piede una forma di “referentite”.

Ma dubito molto che il rimedio migliore sia quello di vanificare la digitalizzazione delle firme appena consentita con una legge approvata all’unanimità dalle Camere, senza che nessuno se ne accorgesse, cambiando così le regole a gioco iniziato!

Come credo che continuare con la prassi dei Referendum mai rispettati, finirebbe per tradursi in una sorta di “harakiri” per l’intera classe politica, con la conseguenza di allargare ulteriormente il solco che la divide dalla società civile.

Non è certo colpa degli italiani se la crisi identitaria ed organizzativa dei Partiti viene inevitabilmente proiettata sul Parlamento, diventato sempre più un “votificio”, un “ratificatore” di decisioni prese altrove e da altri, dal Governo piuttosto che dalle oligarchie.

Certo bisogna evitare di trasformare il referendum abrogativo in una continua defatigante contrapposizione fra il Parlamento che approva una legge e gli elettori che gliela bocciano, sconfessando così la maggioranza che gli stessi elettori hanno concorso a determinare alle elezioni politiche, e aumentando in tal modo la cosiddetta ingovernabilità del Paese.

Ma non c’è che un modo per vanificare tutto questo!

Che i Partiti si riapproprino del ruolo loro assegnato dalla Costituzione, ricominciando a diventare il motore della politica, ascoltando la voce dei cittadini, ritornando a discutere (che non vuol dire litigare) al proprio interno, rifiutandosi di diventare strumenti di ambienti che gattopardescamente operano perchè nulla cambi, comprendendo una buona volta che il tempo dei bizantinismi, dei giri di parole, dei sotterfugi, dei colpevoli silenzi, è finito.

In estrema sintesi approvando in tempi ragionevoli buone leggi che diano risposte concrete alle esigenze dei cittadini, anche se magari non piacciono a certe consorterie e gruppi di pressione.

In questo senso le eventuali richieste di referendum possono diventare non un ostacolo, bensì uno stimolo, a migliorare la qualità della legislazione.

Quindi è inutile che Lor Signori continuino ad accusare i promotori dei vari referendum di usare i quesiti come “armi di distrazione di massa”.

Distrazione da cosa? Viene da chiedersi.

Ovviamente dai giochini di palazzo con cui le consorterie politiche vogliono potersi trastullare al riparo da occhi indiscreti, in primis quelli dei cittadini.

Si usa dire che “la politica non ammette vuoti”.

E’ senz’altro così, e quando si parla di Referendum è palese che se i Partiti non sapranno fare il proprio lavoro, oserei dire il proprio dovere, alla fine inevitabilmente subentreranno i cittadini.

E non è detto che sia una cosa auspicabile per una democrazia parlamentare come la nostra!

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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