4 Aprile 2022 - 10.40

Quella mano tesa verso l’Europa, basta con i ‘Sì, ma…”

di Stefano Diceopoli

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi che la cosiddetta “operazione speciale in Ucraina”, così la definisce Putin, fosse qualcosa di diverso dalla solita sporca guerra, di fronte alle immagini che nelle ultime ore sono arrivate come un uragano sulle prime pagine dei giornali e dei media occidentali, spero sia indotto a fare una seria riflessione.
Perchè quello che hanno trovato gli ucraini dopo aver riconquistato il villaggio di Bucha, un sobborgo alla periferia di Kiev, senza ombra di dubbio deve essere ascritto fra i “crimini di guerra”.
Stiamo parlando di cadaveri buttati come fantocci lungo le strade dei quartieri residenziali della cittadina.
Non quindi in punti strategici, tipo trincee, aeroporti o postazioni missilistiche; no, strade come quelle in cui ciascuno di noi abita, e trascorre la propria vita di ogni giorno.
Poveri corpi allineati sull’asfalto, in abiti civili, alcuni con in mano uno straccio bianco per indicare alla soldataglia russa di essere disarmati, e quindi inoffensivi.
Non stiamo parlando di voci, di si dice, di “sembra”, ma di fatti, fatti veri, documentati dalle foto dei reporter e dei fotografi dei giornali europei, fra cui quelli dei principali quotidiani italiani, quei pochi che possono permettersi di avere degli inviati sul teatro di guerra.
Ed a scorrere i reportage di questi giornalisti sembra di sfogliare un libro dell’orrore.
Perchè raccontano di morti sparsi ovunque, alcuni con le mani legate dietro la schiena, altri con un foro netto in testa o nel petto.
Sempre secondo questi testimoni oculari la maggior parte dei cadaveri sono intatti e non mutilati dalle esplosioni, come sarebbe normale se fossero stati vittime di un’operazione bellica tradizionale.
Ne consegue l’impressione chiara che la loro morte sia stata il risultato di una esecuzione sommaria.
Fra questi morti ci sarebbe anche un ragazzino di 14 anni, un innocente che aveva tutta la vita davanti, e che se l’è vista strappare dalla ferocia degli assassini del Cremlino.
Bucha non è un’eccezione, anche se in questo momento è sotto i riflettori del mondo, in quanto la violenza ai danni della popolazione civile sembra diventata quasi una regola nella martoriata Ucraina.
Tanto che l’organizzazione internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani Human Rights Watch parla apertamente, ed ha documentato, “stupri, esecuzioni sommarie, crudeltà e violenze indicibili e deliberate contro i civili ucraini”.
Vi risparmio le cronache dettagliate tipo quella di Luba, una ragazza ventinovenne di Kharkiv, violentata per una settimana dai soldati che le hanno ucciso davanti agli occhi a pistolettate la madre invalida su una sedia a rotelle.
Ma di storie simili, storie di violenza efferata, sono piene le pagine di tutti i media.
E fra queste mi hanno particolarmente colpito le immagini delle 15 soldatesse ucraine oggetto di una scambio di prigionieri il 1° aprile, rasate a zero dai russi; un atto che ricorda gli sfregi perpetrati dai nazisti nei campi di concentramento.
Ovviamente dal Cremlino si nega tutto, e le immagini ed i racconti dei superstiti sono bollati come fake news, come “propaganda” orchestrata dalla “cricca di nazisti” che governa l’Ucraina per screditare l’esercito russo.
Sappiamo bene che della guerra fa parte anche la propaganda, che la “disinformazia” è una specialità del regime di Putin, e chi può vedere i tg russi racconta di notizie propagandistiche ogni giorno più pazzesche, tipo che la Russia sta mandando aiuti umanitari in Ucraina (sic!).
Viene da chiedersi allora: perchè non c’è alcun giornalista russo in Ucraina?
E’ vero che non sarebbero certi accolti con i mazzi di fiori dalla popolazione, ma è anche vero che potrebbero seguire le “imprese” delle truppe russe godendo della loro protezione, che sarebbe sicuramente non inferiore a quella di cui godono i colleghi occidentali (che pure stanno pagando un loro tributo di morti).
Ma sicuramente questi giornalisti russi, purtroppo asserviti ad un regime che toglie di mezzo chi dissentiva come Anna Politkovskaja, non avrebbero potuto immortalare in una foto quella mano gelida di una giovane donna di Bucha trucidata dai russi sul bordo di una strada, con accanto il suo portachiavi.
Un portachiavi che non portava come al solito l’immagine della squadra di calcio del cuore, o di un santo protettore, bensì l’emblema dell’Europa, con le stelle in campo azzurro.
Quella mano di una donna rigida nella morte, ma tesa verso l’emblema della Ue rappresenta l’aspirazione di sempre del popolo ucraino verso l’Europa, verso una vita normale, libera, protetta dallo stato di polizia che era stato loro imposto negli anni dell’Urss e dello stalinismo, e che adesso stanno rivivendo a seguito dell’ “operazione speciale” di Putin.
Sarà compito degli storici del futuro, visto che difficilmente una nuova Norimberga sarà possibile comunque finisca la guerra in Ucraina, a documentare se quello in atto in Ucraina sia un nuovo genocidio di un popolo, al pari di altri genocidi che si sono succeduti nella storia dell’uomo.
Ma è triste constatare che l’esercito russo non è nuovo a persecuzioni ed esecuzioni di massa.
E fra queste resta emblematica quella consumata nella foresta di Katyn, in cui nel 1940 l’Armata Rossa trucidò ed ammassò in fosse comuni 22mila ufficiali e soldati polacchi.
Certo allora c’era Stalin, che freddamente dopo essersi spartito la Polonia con Hitler, pensò bene di decapitare l’esercito polacco.
Ma non credo si possa negare una sorta di fil rouge che lega questi fatti vecchi di 80 anni con quello che sta succedendo in Ucraina sotto i nostri occhi.
Bucha deve segnare una svolta nella nostra coscienza collettiva.
Perchè quando si parla di massacri di civili non c’è giustificazione, non c’è equilibrismo politico che tenga, non è ammissibile nessun “si ma”.
In altri anni ci furono Guernica in Spagna, ci furono My Lai in Vietnam, ad indignare le opinioni pubbliche.
Adesso è la volta di Bucha, e non possiamo far finta di niente!
Stefano Diceopoli

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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