4 Marzo 2024 - 9.36

Politica italiana.  La cabala del 30, e la sindrome di Caligola

Umberto Baldo

Ieri mi è capitato di soffermarmi su un numero.   Tranquilli, non vi parlerò né di tombola, né di Lotto o Supernalotto.

Il numero in questione è il 30, e ha a che fare con la politica.

Mi spiego meglio.

Guardando la storia degli ultimi anni ci sono stati tre leader politici nostrani, Matteo Renzi, Matteo Salvini,  e Giorgia Meloni, che hanno raggiunto, o superato, questa soglia, con conseguenze su cui vale la pena di sviluppare qualche riflessione.

Vi starete chiedendo: ma cos’ha di così magico quel numero 30?

Stando alla “smorfia napoletana” al numero 30 corrispondono “’e ppalle d’ ‘o tenente”, che però, a quanto ho potuto appurare, non si riferiscono agli attributi maschili di un ufficiale, bensì alle vere palle da cannone.

Quindi non mi sembra che sul 30 la smorfia ci dia indicazioni particolari circa maledizioni, malocchio o sfighe.

Partiamo da Renzi, che nel 2014, da Presidente del Consiglio in carica, presentò quelle elezioni europee come una sorta di un «derby» fra lui e Beppe Grillo, tra speranza e rabbia. E quel derby alla fine lo vinse lui. Il Partito Democratico strappò il 40,81% dei consensi contro il 21,16 del Movimento 5 Stelle, ed il 16,82% di Forza Italia (altri anni eh?). 

Più di 11 milioni di italiani (uno ogni 4 aventi diritto, astenuti compresi) votarono per il nuovo Pd dell’ex sindaco di Firenze,  contro i quasi 5,8 milioni che scelsero Beppe Grillo: quasi un doppiaggio.

Forse  quel 40% venne trattato con troppa enfasi (il 40% in Italia lo raggiunse solo la Dc di Amintore Fanfani nel ’59), e nonostante i ripensamenti e gli autodafè del dopo, io credo che quel risultato strabiliante influenzò la politica di Renzi quando decise di proporre il referendum del 2017, che si trasformò in una dèbacle, e determinò le sue dimissioni da Palazzo Chigi.

E arriviamo ad un altro Matteo, che di cognome fa però Salvini.

Anche lui nel 2019 visse una specie di apoteosi politica, riuscendo, sempre alle europee, a portare la sua Lega ad un risultato incredibile per un Partito che fino ad allora era stato il Partito del Nord; un bel 34% dei suffragi (Pd 22%, M5S 18%, FI 8,5%, FdI 6,4%).

Evidentemente quel 34%  “gasò” talmente  il Capitano da portarlo  a far esplodere una crisi di Governo tra i mojito al Papeete Beach di Milano Marittima.

Chiaramente la strategia di Salvini era quella di sfruttare al massimo il vento in poppa per riuscire ad entrare a Palazzo Chigi come premier. 

Il Capitano, nel suo innescare la crisi di Governo, aveva probabilmente immaginato un epilogo assai diverso da quello andato in scena al Senato il 20 agosto, con le bastonate metaforiche e politiche che Giuseppe Conte gli indirizzò, a lui e solo a lui, nel suo discorso.   Ma soprattutto non aveva neppure valutato la possibilità della “mossa del cavallo” di Matteo Renzi che, sparigliando il campo, aprì la strada ad un Governo M5S-Pd. 

Con il senno di poi, quel colpo di testa del Papeete fu il clamoroso passo falso da cui originano le fortune di Giorgia Meloni, che aveva fondato anni prima un partitino in apparenza improbabile, con la riesumazione dei simboli e delle culture post-fasciste. 

E come vedete siamo arrivati ad un altro 30, anche se in realtà si trattò del 26% con cui Fratelli d’Italia vinse le elezioni politiche del 2022 (Pd 19%, M5S 15,6%, Lega 8,9%). 

Parlo del 30% perché dopo la vittoria elettorale, e l’insediamento a Palazzo Chigi, il Partito di Giorgia Meloni, decimale più, decimale meno, naviga nei sondaggi appunto attorno a questa percentuale. 

Tornando ora al “fil rouge” di queste mie riflessioni, mi chiedo se anche per la “ragazza della Garbatella” il numero 30 porterà male. 

In un mio pezzo del 27 febbraio dal titolo: “Elezioni in Sardegna: primo stop al melonismo imperante”, in parte ho già anticipato i rischi cui è esposta Giorgia Meloni, e cosa dovrebbe fare per evitarli. 

Nei giorni scorsi i massimi analisti politici, ed i giornalisti più quotati, si sono sbizzarriti in ogni tipo di analisi e commento, e di conseguenza abbiamo letto di tutto di più. 

Come sempre in questo nostro Paese che non ha mai superato la divisione fra guelfi e ghibellini, si contano sulle dita di una mano i giornalisti che sviluppano una disanima scevra da  “partigianerie” o “ avversioni tout court”, ma questo abbiamo e questi sono di fatto coloro che influenzano l’opinione pubblica.

Da uomo della strada mi sembra di poter intravvedere nella nostra premier  alcune debolezze su cui dovrebbe lavorare, per superarle.

La prima è una sorta di “familismo”, che sembra spingerla a fidarsi solo di una  ristretta cerchia di fedelissimi che conosce da decenni.

Non parlo solo della sorella e del cognato, il che sarebbe troppo facile, ma in generale di soggetti che vengono da lei scelti, per candidarli a cariche politiche, solo sulla base di una fede consolidata. 

Ma la vicenda sarda a mio avviso ha mostrato qualcosa di più, che io definirei “sindrome di Caligola”.

Caligola è passato alla storia, forse immeritatamente, per la scelta di nominare ”senatore” il proprio cavallo di nome Incitatus. 

Non si sa quale sia stata la reale portata di questa “leggenda”, fatto sta che così ci è stata consegnata dalla storia, e da Svetonio che la narrò. 

Nella scelta di Giorgia Meloni di candidare Paolo Truzzu alla Presidenza della Sardegna forse c’era questo retropensiero: “io impongo agli alleati il mio candidato, indipendentemente dal suo valore o peso politico, tanto alla fine la gente voterà me”, e questo spiegherebbe la sua esposizione mediatica in campagna elettorale.

La premier, forse in preda ad una “sindrome di onnipotenza” non ha così considerato che è sempre pericoloso per un leader partecipare in modo così diretto alle elezioni locali o regionali.  Questo la Meloni, che è politica navigata, avrebbe dovuto saperlo.

Ecco perché la Sardegna, vista in quest’ottica, (indipendentemente se ci sarà o meno il riconteggio dei voti) rompe il racconto da Re Mida che tutto può permettersi, perché in grado di trasformare in oro tutto quel che tocca, in virtù di un consenso crescente nel Paese, e mostra i limiti di uno strapotere della premier finora basato su due assunti: alleati chini ed opposizione inesistente.

Fossi in lei, farei un pensierino anche su quella spallata costituzionale che ha in animo,  con l’introduzione di un premierato  che riduce i poteri del Presidente della Repubblica.

Magari solo per evitare di trovarsi a ripercorrere la strada a suo tempo battuta da Matteo Renzi.

Perché è vero che oggi Fratelli d’Italia veleggia con un vento in poppa del 30%, ma fino a pochi anni fa era al 4%, ed in questo nostro Paese, in cui sono saltati tutti i riferimenti ideologici, ci si mette niente a tornare indietro.  

Perché di questi tempi il consenso è talmente fragile, talmente infondato, e si indirizza a forze politiche talmente disossate, a gruppi dirigenti talmente nulli, che come viene se ne va. 

La prima controprova la vedremo in Abruzzo il prossimo 10 marzo, e se per caso il centrodestra dovesse perdere anche questa Regione, allora il quadro politico subirebbe veramente uno scossone, e le forze di Governo si presenterebbero alle Europee di giugno in condizioni di oggettiva debolezza.

Non so cosa possa succedere, sia chiaro, ma in ogni caso attenzione alla cabala del 30!

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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