2 Febbraio 2023 - 9.34

PILLOLA DI ECONOMIA – I cinesi ci stanno svuotando i mari

di Umberto Baldo

Siete amanti del pesce? Allora queste considerazioni potrebbero interessarvi.

Partiamo dal fatto che gli oceani, per definizione, sono spazi talmente estesi che si prestano ad ogni forma di violazione di qualsiasi regola.

Ed è quindi nelle acque internazionali che si scontrano enormi interessi economici, e dove gli Stati mettono in campo ogni sorta di “furbizia”, “raggiro”, e se serve anche “prova di forza”, per accaparrarsi le ricchezze celate dalle acque, in primis il pesce.

Ormai da tempo sui banchi delle nostre pescherie si vedono sempre più spesso specie ittiche che non provengono dai nostri mari.   

Ma quanto pesce viene importato dall’Unione europea? E chi si occupa di pescarlo? 

La popolazione europea è tradizionalmente una grande consumatrice di pesce, rappresentando il secondo importatore al mondo.

In particolare il nostro continente risulta tra i più affamati di tonno, merluzzo, gamberi e pesce azzurro, senza però riuscire ad essere saziato con le sole risorse disponibili nelle acque dei Paesi membri.

E qui inevitabilmente arriviamo allo snodo della questione.

I mari che circondano l’Europa sono ormai iper sfruttati, per cui numerosi Paesi europei negli anni hanno concluso accordi di partenariato con numerosi Stati di tutti i continenti, relativi appunto ai diritti di pesca.

Lo Stato che  ritroviamo più spesso protagonista di questi trattati commerciali è la Spagna, presente in quasi tutti i protocolli in vigore, seguita da Portogallo e Francia. 

Per limitarci a noi, le navi italiane sono autorizzate ad operare nelle acque delle Mauritius, della Guinea-Bissau, nonché delle Seychelles per il tonno, mentre in Marocco recuperiamo gran parte delle specie tipiche del Mediterraneo, come il pesce azzurro (sardine, acciughe, alacce, sgombri), o di pezzatura maggiore come pesci sciabola, merluzzi carbonari e naselli.

Questa la situazione di fatto, che però da qualche anno si scontra con una nuova realtà, quella che la richiesta di pesce è aumentata incredibilmente in Cina.

E’ un effetto della crescita economica della Cina, con la conseguenza che l’aumento della ricchezza degli ultimi anni spinge la popolazione cinese a mettere in tavola quantità sempre più elevate di pesce, richiedendone le tipologie più varie. 

Ovviamente, dato che parliamo di quasi un miliardo e mezzo di bocche, in tal modo sono andati ad esaurirsi gli stock ittici nazionali, per compensare i quali Pechino ha sviluppato enormemente gli allevamenti,  diventando il primo importatore mondiale di mangime fatto di  farine di pesce, prodotto in gran parte dai  paesi dell’Africa occidentale, come il Senegal, dove però le richieste cinesi stanno creando scompensi nell’alimentazione locale, in quanto per produrre i mangimi si utilizzano i piccoli pesci che venivano abitualmente consumati dalla popolazione.

Ma poiché anche questo non basta per soddisfare la domanda interna sempre crescente, dal 2014 Pechino ha creato la flotta di navi da pesca più grande del mondo.

Secondo uno studio indipendente commissionato dalla Ue, consultabile in rete digitando “Role and impact of China on world fisheries and aquaculture”,  la flotta peschereccia cinese, tramite sussidi statali non trasparenti, azioni di oscuramento, e accordi sottobanco con Paesi africani ed asiatici, starebbe esaurendo le scorte negli oceani.

Per capire le dimensioni del fenomeno, la flotta cinese definita “di acque lontane” conta circa 900 navi. 

Queste sarebbero però solo quelle “ufficialmente dichiarate” da Pechino. 

Perché in realtà ci sono altre 2000 navi “invisibili” che operano lontano dalle coste e dai mari vicini alla Cina,  per recuperare grandi quantità di pesce, senza essere monitorate.

Di fatto uno sfida fra Davide e Golia visto che la corrispondente flotta d’altura dei Paesi europei consta di appena 259 imbarcazioni.  Aggravata dal fatto che, secondo i ricercatori, mentre le navi dei Paesi europei sono tenute a rispettare rigidi regolamenti sulle quantità e le tipologie di pescato, nonché accordi di sostegno alle comunità locali di pescatori, la flotta cinese d’altura opera in modo più vantaggioso, non dovendo sottostare a tali restrizioni.

E non si può sottacere che, oltre a quelle sopra citate, ufficiali e non,  le navi cinesi che operano nel sud del Giappone e intorno alla penisola coreana di solito non vengono calcolate nelle flotte d’altura di Pechino, pur trattandosi di circa ulteriori 2000 imbarcazioni.

Credo vi sia chiaro a questo punto che stiamo parlando di una flotta peschereccia enorme di “navi invisibili” (circa 4000), che di fatto sta svuotando i mari di tutto il mondo. 

Capite bene che parlare di controlli è addirittura ridicolo, perché la superficie dei mari della terra è immensa, e non basterebbero tutte le flotte militari esistenti messe insieme.

Tutto ciò avviene ovviamente con il sostegno diretto, anche se non palese, dei Mandarini di Pechino, che approfittando della scarsa trasparenza sul numero di navi e sulle relative catture, elargisce sovvenzioni a queste flotte pescherecce che in altri tempi forse si sarebbero definite “pirata”.

Il citato studio finanziato dalla Ue evidenzia anche pratiche messe in atto dalle navi cinesi per eludere e “confondere” eventuali controlli, quali attività di trasbordo del pescato in aree marittime come quelle del Perù e dell’Ecuador, con navi che battono bandiere di Paesi terzi, soprattutto di Panama, paese noto per nascondere la proprietà effettiva delle imbarcazioni.

A dirvela tutta non sono del tutto convinto che le preoccupazioni di noi europei siano di tipo squisitamente ecologico, di salvaguardia cioè della bio-diversità del mare e delle sue risorse.

Certo magari ci saranno anche quelle, ma per il fatto che, come accennato, siamo il secondo grande importatore di pesce del mondo, probabilmente siamo più preoccupati del fatto che se i cinesi continuano così per noi di pesce ne resterà sempre meno.

Allo stato dei fatti non credo ci siano contromisure in grado di fermare la flotta pirata di Pechino, mossa dalla necessità di soddisfare le domanda della popolazione, oltre che, da non sottovalutare,  anche dal fatto che si tratta di affari miliardari. 

Certo gli Stati membri della Ue potrebbero abbandonare la pratica dei protocolli bilaterali per promuovere accordi a livello comunitario, ma non è detto che questo sarebbe sufficiente, e poi i tempi sarebbero comunque lunghi.

In definitiva non la vedo facile, anche perché nonostante le belle parole, nonostante i proclami di Pechino sul “secolo ecologico”, le pratiche predatorie dei pescatori cinesi finanziati dallo Stato dicono tutt’altro.

Umberto Baldo 

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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