18 Maggio 2015 - 14.00

Moretti perdente: tutti i mali del renzismo in una frase

moretti
di Marco Osti

C’è tutto il renzismo nella frase con cui il presidente del Consiglio dei Ministri ha detto che alle prossime elezioni regionali il Partito Democratico, di cui è anche segretario, riuscirà a prevalere in 6 sulle 7 consultazioni previste.
Quella che ha dato per persa non l’ha nominata, ma tutti gli osservatori l’hanno individuata nel Veneto, dove la candidata governatrice del centro sinistra è Alessandra Moretti.
Questa affermazione potrebbe apparire banale, ma non lo è a urne ancora da aprire, perché il premier, invece di spronare l’elettorato a votare l’esponente del suo partito, per riuscire in una rimonta su quanto dicono i sondaggi, manda un segnale che inevitabilmente verrà percepito come una resa già annunciata e accettata.
Insomma Renzi ha scaricato la Moretti al suo destino.
Convinto che il recupero sul candidato della Lega Luca Zaia sia impossibile ha deciso di neanche provarci a cavalcare la profonda divisione che c’è nel centro destra veneto, dove continua a essere in gioco anche la candidatura del sindaco di Verona Luca Tosi.
Certo, in caso la ex eurodeputata dovesse, con uno scatto finale, riuscire a ribaltare le sorti di un voto già scritto, l’impianto comunicativo del presidente del Consiglio cavalcherà la vittoria, evidenziando che la battuta a effetto era una strategia e sottolineando che il partito ha sostenuto la Moretti inviandole a supporto Patrizio Donnini, spin doctor fiorentino e uomo di fiducia del premier.
In caso contrario, Renzi dirà che tutto sarà andato come previsto, sorvolerà sulla sconfitta e incasserà la vittoria nelle altre regioni, anche dove sarà ottenuta grazie ad alcune candidature, nelle liste che appoggiano il Pd, impresentabili per sua stessa ammissione.
In tutto ciò emerge il renzismo.
In primo luogo nella ricerca spasmodica della vittoria, per la quale si è disposti a tutto, anche ad accettare che personaggi vicini al neo fascismo appoggino liste Pd oppure all’ingresso nel partito di chi era da sempre schierato sul fronte politico opposto.
Nell’architettura politica di Renzi tutto è proiettato alla vittoria, oltre il metodo e il contenuto delle proposte politiche, anche se per prevalere devono schiacciare l’occhio alle imprese, invece che ai lavoratori, o al centro destra.
Una impostazione che infatti lacera il Pd e fa insorgere la sua minoranza, alla quale Renzi non ribatte nel merito, ma sostenendo che è il simbolo della sinistra perdente, mentre dimentica che oggi governa con i voti che prese Bersani e lui non è mai stato eletto per essere dov’è e nemmeno in Parlamento, sebbene dicesse che era inaccettabile arrivare alla presidenza del Consiglio senza passare dal voto.
Ma l’importante, come detto, è vincere.
La Moretti è sulla via della sconfitta, quindi il capo la sacrifica, scordando che, aldilà di quello che si può dire delle sue proposte e delle critiche a certi suoi atteggiamenti, lei è stata imposta candidata da lui e che per farlo si è dimessa da un posto certo come quello di parlamentare europeo.
La candidata governatrice però non può opporsi, e infatti non lo sta facendo, perché comunque potrà sempre essere messa a tacere ricordando quello che di lei si è già detto e da cui finora è stata difesa, che è pur sempre una ex bersaniana salita in corsa sul carro di Renzi.
Inoltre l’esternazione del premier sulle regionali ricalca lo schema già visto di prendere le distanze da problemi e contestazioni.
E’ una costante da quando è presidente del Consiglio, mentre quando doveva scagliarsi contro la nomenclatura da rottamare non si perdeva una polemica, oggi dove c’è un grattacapo lui guarda e passa.
Ė capitato anche con i fatti di Milano, per gli scempi compiuti da teppisti che hanno sfruttato il corteo No Expo per devastazioni e violenze. All’inizio ha detto che lui quella cosa non la commentava. Poi, quando ha capito su cosa insisteva la polemica, ha liquidato i teppisti come ragazzi viziati con il Rolex, senza entrare nel merito di quanto avvenuto e del perché.
Quando c’è una contestazione verso di lui, Renzi scompare, passa da una porta laterale, non accetta il contraddittorio. Quando c’è da prendere applausi e consenso è in prima fila.
Un atteggiamento che vuole mostrare solo il volto vincente e proiettato al successo, che da sempre cavalcano i leader supremi, insofferenti verso chi li contesta, chi li contraddice, chi dissente da quello che lui ha deciso essere il giusto per tutti.
Chi ha opinioni diverse da quelle del capo non ha torto nel merito, perché discutendo nel merito esisterebbero considerazioni a favore e contrarie, ma è un “gufo” o un disfattista, che va indicato al pubblico ludibrio come chi si oppone alla via della vittoria indicata dal leader e quindi come il responsabile di un eventuale fallimento.
E’ una storia antica e già vista, dai peggiori dittatori del Novecento ai politici che hanno cavalcato la società dell’immagine e il culto del benessere, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando l’Amministrazione Reagan negli Stati Uniti divenne simbolo di quella società edonistica e individualistica che in Italia può avere come riferimento Berlusconi e il suo mondo della televisione, che già in gioventù attrasse Renzi come concorrente in un gioco a premi su una tv Fininvest.
E da lì, da quell’epoca, arriva il presidente del Consiglio, che appartiene a quella generazione cresciuta con il culto dell’immagine e della necessità di essere vincenti.
Non tutti quelli che negli anni Ottanta diventavano adulti hanno coltivato la stessa concezione individualistica del mondo, che oggi Renzi ripropone, ma certamente la riconoscono come la cultura che identifica il successo nella capacità di impresa.
Non è quindi casuale che le riforme di Renzi vadano nella direzione di favorire il mondo imprenditoriale, come dimostra la Legge di Stabilità, che elargisce a pioggia sovvenzioni a chi assume, e il Jobs Act, che ha eliminato l’articolo 18 e di fatto ha precarizzato, fino alla scadenza delle agevolazioni fiscali per i neo assunti, il contratto a tempo indeterminato.
Una riforma che ha tra i sostenitori plaudenti esponenti del centro destra come Brunetta e Sacconi, che hanno visto realizzare quello che Berlusconi aveva tentato di fare senza riuscirci.
Ė la stessa cultura che vuole identificare la figura del presidente del Consiglio nell’imprenditore capace di risollevare l’impresa Italia, secondo l’assioma che non a caso fu sostenuto proprio da Berlusconi quando entrò in politica nel 1993.
Ma l’Italia non può essere concepita come una società che deve realizzare profitto, perché in un’azienda un settore che non produce può essere smantellato, ma questo non può avvenire in un Paese, dove anzi deve esserci un impegno sociale, non fruttifero, a sostegno delle parti deboli.
A guardare bene la polemica sulla riforma della scuola, aldilà del dibattito sui singoli provvedimenti, di cui alcuni possono essere positivi e altri da rivedere, ruota intorno a questo aspetto. Alla logica sottostante di trasformare gli istituti scolastici in piccole aziende in competizione fra loro e tutto l’insegnamento pubblico in un mondo basato sulla concorrenza fra docenti, con il paradosso che se diventasse infruttuoso insegnare Dante o la matematica, secondo concetti di produttività tutti da definire, allora si potrebbe relegarli in soffitta.
La discussione sul merito della questione è comunque stata esclusa dal Governo e il presidente del Consiglio ha colto l’occasione per fare l’ennesima uscita mediatica, mettendosi davanti a una telecamera a spiegare su una lavagna la riforma, invece che ad ascoltare le centinaia di migliaia di donne e uomini che hanno rinunciato a un giorno di stipendio per scioperare e i sindacati che li rappresentano.
Naturalmente il sindacato, e in generale i corpi intermedi della società, nella concezione di Renzi sono fastidiosi gruppi di persone che pongono problemi e quindi vanno identificati tra quei disfattisti, che si pongono come ostacoli sulla via del successo da lui indicata.
Quando ci sono i problemi da risolvere, come a Terni o alla Whirpool e nelle varie crisi aziendali, il contributo dei sindacati a risolverle e a governare la rabbia sociale diventa indispensabile, finché un giorno l’uomo solo al comando, non li troverà più al tavolo e non sarà capace di fare fronte ai problemi che dovrà affrontare.
Non sarà necessariamente Renzi, ma anche un suo successore che godrà del potere che lui con la riforma elettorale e costituzionale gli sta attribuendo, ma se accadrà quel giorno non vi saranno uscite secondarie sufficienti per favorire la fuga dalla protesta che i corpi intermedi, e soprattutto i sindacati, da sempre riescono a impedire che esploda trovando soluzioni condivise.
Speriamo che quel giorno non arrivi e che la democrazia rappresentativa e la partecipazione siano ancora una volta più forte del potere di un singolo individuo.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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