24 Settembre 2021 - 10.17

Le marce anti-violenza: ipocrisia col timer?

“Prima pagina venti notizie ventuno ingiustizie e lo Stato che fa si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”: così cantava Fabrizio De Andrè nel 1990 e ancora una volta il poeta – perché definirlo semplicemente cantautore sarebbe riduttivo – aveva fatto centro mettendo a nudo la realtà di un Paese che chiacchiera molto ma latita dal punto di vista dell’azione, soprattutto quando si tratta di impegno civile.
L’italiano medio, quello che ama riempirsi la bocca di frasi – variamente attribuite – del tipo “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri” o “«Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», quest’ultima falsamente attribuita a Voltaire il
quale mai si sarebbe neppure sognato di pronunciarla, ha la singolare capacità di farsi trasportare dall’onda del momento per poi disamorarsene un secondo dopo per passare ad un’altra infatuazione per una nuova bandiera.
Se tutto questo riguardasse solo lo sport – durante le Olimpiadi invernali si parlava con foga di curling anche a Linosa – tutto sommato il problema neppure si porrebbe; purtroppo invece il discorso è assai più ampio e coinvolge argomenti e situazioni che andrebbero trattate con decisione ma allo stesso tempo con delicatezza.
All’italiano medio piacciono le marce e soprattutto le fiaccolate; ogni occasione è buona per mostrare “solidarietà” o “vicinanza”, salvo poi dileguarsi non appena la cera dell’ultima candela si estingue.
È tristissimo vedere con quanta superficialità – e troppo spesso con quanta partigianeria da Bar Sport – si trattano argomenti e soprattutto avvenimenti sensibili.
Una delle più spaventose piaghe di questo povero Stivale è la violenza alle donne la quale troppo spesso si trasforma in femminicidio, delitto tutto italiano diventato penalmente perseguibile meno di quarant’anni fa, mentre il Codice Zanardelli prima e quello Rocco poi “punivano” il coniuge
assassino con poco più di un buffetto sulla guancia.
A favore delle vittime, come si potrà mai solidarizzare con chi non è più resta arduo da capire, si moltiplicano iniziative di “sensibilizzazione” spesso, come si diceva, sotto forma di fiaccolate che finiscono per diventare più utili a chi partecipa – un’inquadratura in tv e magari pure due battute
d’intervista non guastano mai – che non alla destinataria diretta. Terrificanti anche i telecronisti che pongono ai parenti domande del tipo “Che cosa prova in questo momento?”
Sarebbero utilissime se all’alba del giorno dopo ciascuno dei partecipanti si impegnasse attivamente in una delle decine di associazioni – tutte validissime e sempre sul territorio – che si occupano di sottrarre le donne, e spesso i figli che subiscono il loro stesso orrendo destino ospitandoli in case protette, facendole letteralmente sparire.
Bene! Quanti dei solerti portatori di candelina sarebbero disposti ad ospitare nelle loro case una o più donne maltrattate mettendo a disposizione un letto, un pasto caldo ma soprattutto calore umano? Temo basterebbero le dita di mezza mano per contarli.
Per non dire delle manifestazioni “spontanee” a seguito di morti sul lavoro, dall’operaio regolarmente assunto ma costretto a svolgere le proprie mansioni senza alcun dispositivo di sicurezza al bracciante clandestino stroncato dal sole e dal calore in un campo di pomodori dove resta dodici ore al giorno per cinque euro. Tutti indignati ma nessuno che denunci pubblicamente il datore di lavoro o il caporale.
Ci si trincera dietro un farisaico “Non è compito mio ma dello Stato”; peccato che lo Stato sia ciascuno di noi Chiudo con Brecht, che ebbe a dire “Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.”
Alessandro Cammarano

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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