2 Maggio 2023 - 8.45

La Meloni nella morsa: fra Patto di Stabilità e Mes

Mi rendo conto che Patto di Stabilità e Mes sono argomenti che non attirano particolarmente l’attenzione della massa dei cittadini, anche per il loro estremo tecnicismo in verità; ma a dirla tutta questo atteggiamento è sbagliato, perché queste normative che possono sembrare “lontane” dei problemi del nostro quotidiano, hanno in realtà profonde ricadute sulla nostra vita, perché contribuiscono a determinare le risorse che lo Stato può destinare ai servizi.

Forse giova ricordare in primis di cosa parliamo.

Il Patto di Stabilità e  Crescita, stilato e sottoscritto nel lontano 1997, è uno dei pilastri su cui si regge l’Ue, e serve ad armonizzare le politiche di bilancio pubblico perseguite dai Paesi membri della Ue. 

In estrema sintesi, alla base del Patto, che consiste nel rispetto dei seguenti parametri

·      il rapporto deficit/Pil, che non deve superare il 3%

·      il rapporto debito pubblico/Pil, che non deve superare il 60%

c’era, e c’è tutt’ora, l’intento di controllare le politiche di bilancio pubbliche degli Stati,  al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione economica e monetaria europea, e quindi rafforzare il percorso di integrazione monetaria che ha avuto il via con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel 1992.

Sono anni che si discute sulla necessità di introdurre modifiche a questa normativa, alla luce delle mutate condizioni economico-politiche rispetto al 1997.

Ed infatti nei giorni scorsi la Commissione Europea, dopo il “liberi tutti” del biennio del Covid, ha presentato ufficialmente il “Nuovo Patto di Stabilità”, su cui adesso proseguirà il negoziato con i Governi degli Stati membri e con il Parlamento europeo. 

Inutile dire che già dalla presentazione si è manifestata la consueta divisione fra Paesi cosiddetti “frugali” (quelli che hanno i conti a posto)  e quelli “spendaccioni”, di cui l’Italia è con la Grecia la punta di diamante. 

Sarebbe troppo lungo spiegare nei dettagli il contenuto della proposta: basta dire a mio avviso che i Paesi con deficit sopra il 3%, o debito sopra il 60% (entrambi questi parametri sono stati confermati), dovranno presentare dei piani di aggiustamento di bilancio quadriennali rientrare nei parametri.

Avranno l’obbligo di un aggiustamento annuale del deficit di bilancio dello 0,5%, e di una contestuale riduzione del debito; e in caso non lo facessero sarebbero soggetti in automatico ad una procedura di infrazione.

Quindi alla fine resta sostanzialmente  tutto come prima?

Assolutamente no. 

Infatti la Commissione ha respinto il pressing della Germania e dell’Olanda per un coefficiente numerico fisso per tutti di riduzione del debito (Berlino caldeggiava l’1% del Pil l’anno per i Paesi a più alto debito), e propone di  negoziare con i singoli Stati membri piani individuali di aggiustamento di bilancio di quattro anni, prorogabili a sette. 

La base è la «traiettoria tecnica» indicata da Bruxelles per rimediare al debito in eccesso, ed eventualmente il deficit se questo sarà superiore alla soglia del 3% del Pil, fondandosi ora su un solo parametro: la spesa pubblica. 

Starà poi ai Governi modulare questa traiettoria disegnando i piani, che dovranno contenere riforme e investimenti con l’occhio rivolto alle priorità Ue (clima, digitale, difesa, sociale).

Quindi non più regole e controlli uguali per tutti indistintamente (come sostenuto dalla Germania), bensì piani elaborati da ciascun Governo d’intesa con la Commissione per definire la politica economica, di spesa e di investimenti, di quattro anni in quattro anni.

Non c’è dubbio che con questa formula il debito sarà ridotto in modo molto più morbido rispetto alle regole attuali, e apparentemente le nuove norme  sembrerebbero venire incontro alle esigenze di Paesi “con numeri pesanti” come il nostro. 

Ma come in tutte le mediazioni, che spesso lasciano tutti scontenti, questa volta 

i dubbi e le obiezioni riguardano un presunto eccesso di discrezionalità (qualcuno arriva a parlare di arbitrarietà) attribuito alla Commissione nell’individuare assieme al singolo Stato il percorso di rientro.

Ma al di là degli aspetti tecnici, la cui valutazione lascio agli economisti come Cottarelli, Bini Smaghi, De Romanis, è l’aspetto politico della faccenda quello che mi interessa, ovviamente visto dall’Italia. 

Io credo che qualunque fosse stato il contenuto del nuovo Patto di Stabilità, non avrebbe comunque trovato grande consenso dalle nostre parti.

Perché, dando per scontate le critiche di leghisti da sempre anti Ue come Marco Zanni e Claudio Borghi, che non meravigliano quindi più di tanto, anni di retorica (sia di destra che di sinistra) sulle regole “stupide” del vecchio Patto, sugli automatismi delle tagliole disseminate sui percorsi di rientro dei Paesi più indebitati, sul tragico precedente della Grecia sotto il tallone della Troika, hanno alla lunga convinto la maggioranza degli italiani che il problema sia l’Europa, con i suoi burocrati percepiti come intrisi di “ragionierismo”, invece che del deficit, e soprattutto del  debito fuori controllo del nostro Paese. 

Quindi la colpa non sarebbe dei nostri Demostene che hanno sperperato per decenni i soldi dei contribuenti, bensì dalle “regole” europee”. 

D’altronde quale forza politica se la sente di dire agli italiani che se si fanno debiti sicuramente si sta vivendo al di sopra delle proprie possibilità, e che in nessun Paese al mondo metà dei cittadini vive sulle spalle dell’altra metà (evasione, sussidi ecc.)?

A Roma, ma Lor Signori lo hanno fatto credere anche ai cittadini, forse ci si era illusi che, dopo la sbornia della pandemia, si sarebbe potuto continuare a dare all’Italia sempre più risorse, magari a fondo perduto o a tassi irrisori, senza mai verificare come quei soldi dei contribuenti europei venissero spesi (magari in marchette elettorali tipo redditi di cittadinanza o superbonus).

Come pure ci si era illusi che le norme comunitarie potessero essere sempre aggirate o vanificate da noi “furbi italici”, per continuare a garantire rendite extra concorrenza ai balneari, ai taxisti, agli ambulanti, ed in generale a tutti gli amici degli amici dei reggitori questa Repubblichetta di Pulcinella.

Certo le nuove regole del Patto di Stabilità, se approvate, nei prossimi anni costringeranno l’Italia a politiche di rientro sia dal deficit che dal debito ( si stima dagli 8 ai 16 miliardi l’anno) concordate con la Commissione, e dalla stessa verificate, ma per chi si è preso la briga di spulciare il programma del  Def si è potuto rendere conto che la Meloni e Giorgetti non sono degli sprovveduti, e hanno già previsto una riduzione del deficit di due punti in tre anni: dal 4,5 per cento del 2023 al 2,5 del 2026 (0,7 punti l’anno in media); più di quanto verrebbe richiesto dalla Commissione.

E con una correzione del genere non sarà facile realizzare il programma elettorale, fatto di aumento della spesa (pensioni) e taglio delle tasse (riforma fiscale), e quindi se non si vorrà aumentare la pressione fiscale  bisognerà trovare risorse dal bilancio; guarda caso esattamente ciò che il governo ha già previsto, sempre  nel Def, quando per le coperture necessarie alle sue politiche ha indicato un “rafforzamento della revisione della spesa corrente”.

Sicuramente Giorgia Meloni dovrà usare il pugno di ferro con quei Ministri che continuano a “sproloquiare” di interventi da decine e decine di miliardi, tipo il ponte di Messina, senza sapere da dove potranno essere recuperati.

La premier sa bene che il sentiero per criticare la proposta della Commissione sul nuovo Patto è particolarmente stretto, perché  l’invocare maggiore elasticità per l’Italia (in virtù della nostra specificità?) si scontrerebbe con la netta contrarietà, per non dire aperta ostilità, proprio dei suoi “amichetti” delle destre sovraniste europee, che sono i principali fautori di un ritorno all’austerity pre Covid, e che alla prova dei fatti non sarebbero certo accomodanti con l’Italia, uno degli Stati il cui quadro economico-finanziario è più deteriorato, e la cui reputazione di inaffidabilità è ingigantita da molti Paesi proprio in una chiave nazionalista.

E se la Meloni spera alle prossime europee di portare le destre europee, moderate ed estreme,  riunite nell’ECR, ad un patto con il PPE che estrometta i socialisti del PSE, non può certo indispettirle.

Sulla mancata ratifica del Mes, che ormai assume toni grotteschi, mi sono già espresso più volte, ma resta valida la mia idea che gli esponenti della destra sono ancora traumatizzati dalle vicende che portarono alla caduta di Berlusconi ed alla sua sostituzione con Monti, per cui solo parlare di Fondo Salva Stati (o salva Banche) provoca loro l’orticaria. 

Concludendo, la trattativa per il rinnovo del patto sarà lunga e tribolata, ma mi auguro che a Palazzo Chigi e dintorni siano consci che un Paese ad alto debito e bassa crescita come l’Italia è sempre a rischio di finire nella graticola dei mercati, per cui confido che Meloni capisca che  mettersi di traverso al Nuovo Patto, cercando di rimettere tutto in discussione per  amore di polemica contro “le ingerenze ed i controlli della Commissione sulla politica nazionale”, o per velleità sovraniste, o per assecondare certi istinti anti europei presenti nella maggioranza, finirebbe alla fine per favorire le richieste di maggiore rigidità dei tedeschi e dei loro alleati frugali.

Ne varrebbe la pena?

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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