Finte bionde: il trash provinciale tutto italiano… e Vicenza è al top

Di Alessandro Cammarano
Nelle grandi città, il biondo è un affare da boutique. Si parla di “colpi di sole”, “shatush” e “balayage”, di sedute da duecento euro e di parrucchieri che firmano le teste come stilisti. Le luci nei saloni sono studiate come in una galleria d’arte, le riviste patinate spiegano i “cinque riflessi del momento”, e la cliente esce convinta di avere in testa il tramonto di Malibu.
A Vicenza — come in gran parte della provincia italiana — la faccenda è molto diversa. Qui il biondo non è un lusso, ma un diritto acquisito. Non si coltiva nei saloni di tendenza, ma spesso tra le mura domestiche, con guanti di plastica e asciugamani sacrificabili. Basta infilare la confezione nel carrello della spesa, accanto al latte e alla carta igienica, e il rito è pronto a ripetersi.
Oggi, va detto, il progresso è arrivato anche qui: le tinte sono “senza ammoniaca”. Dunque non più vapori tossici che saturano la cucina, mariti in fuga e figli esiliati nelle loro camere per non perdere i sensi.
Adesso i flaconi promettono rispetto per i capelli e persino per l’ambiente. Peccato che, dopo qualche lavaggio, il biondo torni a essere quello di sempre: giallo paglierino, arancio scolorito, cenere indefinito.
La tecnologia ha tolto il fastidio dell’odore, ma non l’ostinazione del risultato.
Perché il punto è proprio questo: il biondo provinciale non ha mai preteso la perfezione.
È un atto di resistenza, un messaggio al mondo: “Sono ancora in partita”; e se le sopracciglia restano lì, nere e indomabili, poco importa. In fondo, è proprio quel contrasto a raccontare la verità, con l’ironia involontaria di chi finge di non vedere.
Il cinema aveva già colto la mania con “Le finte bionde” di Carlo Vanzina, ambientato a Roma nel 1989: lì il biondo era un biglietto da visita sociale, un’ossessione per scalare la piramide. A Vicenza e dintorni, invece, il biondo è più un’arma quotidiana contro l’anagrafe e la monotonia. Lo si incontra ovunque: al mercato del giovedì in Piazza dei Signori, nella fila alle poste di viale Roma, al supermercato di quartiere.
Per rendere l’idea, bastano alcuni ritratti paradigmatici; personaggi inventati, certo, ma talmente verosimili da sembrare veri.
Ecco dunque Mirella, 58 anni, biondo platino da tre decenni.
Per lei la tinta è come una vaccinazione: indispensabile, ciclica, salvifica. Ogni mese, puntualissima, rifà il colore, e giura che senza il biondo “avrebbe vent’anni in più in faccia”. Il marito sostiene che, ormai, la ricrescita fa parte dell’arredamento di casa. Lei, impassibile, ribatte: “Il Palladio è eterno, e anch’io”.
E che dire di Valentina, 27 anni, commessa nel centro storico?
Ha iniziato da poco ma si sente già “indietro” rispetto alle amiche. Ha scelto un biondo freddo da catalogo, che in foto sembra convincente, ma dal vivo ricorda il grigio di un temporale. Le sopracciglia, nere e marcate, raccontano tutta un’altra storia, ma lei giura che sia “un contrasto voluto”. È probabile che ci creda davvero.
Poi c’è Carla, 49 anni, bidella di scuola media.
Porta un biondo miele che, dopo qualche shampoo, diventa giallo fluorescente. Lei è convinta che i ragazzi non la riconoscano quando rifà la tinta, e sostiene di sentirsi “una di loro”. Gli studenti, per affetto e per quieto vivere, non la contraddicono.
Infine, Giovanna, 72 anni, pensionata sprint.
Una volta lasciato il lavoro, ha deciso di “osare”: biondo rame, che in realtà vira all’arancione vivace. Dice che così “si distingue” e che i nipoti la adorano perché sembra “una nonna rock”. Quando il parrucchiere le ha proposto di tornare al naturale, lei ha riso: “Naturale? Mai stato il mio stile”.
E tutte, che lo sappiano o no, appartengono a un’unica confraternita: quella delle finte bionde. Non aspirano a sembrare dive hollywoodiane, ma a sentirsi un po’ meno stanche, un po’ meno segnate dal tempo. E anche quando il colore scolorisce, la ricrescita avanza e il capello si sfibra, non mollano. Perché la partita non è mai estetica: è psicologica.
In questo senso, Vicenza è un laboratorio perfetto: una città dove le signore bionde presidiano i portici, le sagre di paese, gli aperitivi con l’ombra di rosso. Dove il biondo casalingo, con o senza ammoniaca, è diventato parte del paesaggio tanto quanto i palazzi palladiani o i bigoli all’anatra.
Forse la battaglia contro il tempo è persa in partenza, ma la determinazione, l’ostinazione e la comicità involontaria con cui viene combattuta la rendono irresistibile.
Senza le finte bionde, Vicenza sarebbe una città meno luminosa, più grigia, più arrendevole.
Il biondo, insomma, non è un colore: è un gesto, una bandiera, una tradizione… e forse anche la più ironica, tenera e umana delle illusioni.













