18 Settembre 2023 - 9.49

Elly Schlein e i (tanti) mal di pancia nel PD

Umberto Baldo

Non fosse passato ormai un secolo, leggendo le cronache del Pd dell’era Schleiniana, sembra di essere tornati a quel 1921 quando Bordiga, Gramsci, Togliatti, Terracini e altri abbandonarono i lavori del congresso  del Congresso di Livorno del Partito Socialista per fondare il Partito Comunista d’Italia. 

Non fu l’unica spaccatura della sinistra italiana, la cui caratteristica principale è sempre stata il frazionismo, con innumerevoli Partiti e Partinini spesso condannati a vite stentate, con percentuali elettorali da prefissi telefonici.

Ma la gauche è così, questo è il suo DNA, caratterizzato da continue ricerche di nuovi “soli dell’avvenire”, dalla difesa della “limpieza de sangre” anticapitalista, sacrificando alle idealità le prospettive di diventare forza maggioritaria, e quindi  di governo. 

Lo so bene che certe similitudini sembrano un po’ azzardate, e forse anti-storiche, ma se riflettete un po’, la” pasionaria eletta dai passanti” sta amplificando l’eterna divisione fra riformisti e massimalisti, che risulta tanto più grave in un Partito nato per fondere due anime della società italiana, quella comunista e quella cattolica.

Le cronache degli ultimi giorni sembrano darmi ragione, visto che una trentina di esponenti dem della Liguria hanno deciso di lasciare il “nuovo corso” schleiniano per entrare in Azione, il movimento di Carlo Calenda.   Non si può minimizzare, perché  la fuga di massa ha coinvolto nomi di un certo peso nell’orbita dem tra cui la consigliera più votata a Genova, Cristina Lodi, ed il Consigliere Regionale Pippo Rossetti.

E per capire a fondo le motivazioni di questa difficile scelta credo bastino le parole appunto di Pippo Rossetti: «Spesso il segretario nazionale ha caratterizzato l’identità del partito (Bersani, Renzi, Zingaretti), ora il cambiamento è strutturale e si è affermato con la modifica del Manifesto di Veltroni del 2007”. 

Vi ho già parlato altre volte di Elly Schlein, e non so se oggi riuscirò ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un’analisi che confesso avevo ben chiara fin dalla sua elezione alla Segreteria, ma il punto che sta rendendo il Pd un partito invivibile per molti iscritti, militanti ed esponenti nelle Istituzioni, credo si possa riassumere nel fatto inconfutabile che in questi mesi non è solo cambiata la linea politica del Partito, ma qualcosa di più profondo che attiene alla fisionomia, alla natura, all’ideologia, se si può dir così.

Terremoto politico: non trovo una parola che spieghi meglio la svolta radicale di Elly Schlein, guidata dalla logica “pas d’ennemi a gauche”, che sembra da un lato mirata a rincorrere il massimalismo di tipo chavista di Giuseppe Conte e dei suoi “ex grillini” (io li chiamo ormai così), e dall’altro distaccandosi sempre più dall’ala riformista  dem, (calcando sull’anti-renzismo) come se si trattasse di quattro sfigati, e non di una componente che  alle primarie ha comunque ottenuto il 47%. 

Ciò sembra importare poco alla Schlein, che fra discorsi fumosi e posizioni incomprensibili anche agli addetti ai lavori, sta oggettivamente forzando pro domo sua l’esito di un congresso, senza tenere conto che gli iscritti non avevano scelto lei bensì Stefano Bonaccini. 

Il quale sembra volersi muovere in qualche modo, tanto da dichiarare di recente: “È essenziale che il Pd recuperi rapidamente la propria vocazione maggioritaria. Abbiamo bisogno di un partito più grande ed espansivo che punti a tornare al governo, non di un partito più piccolo e radicale”.

Il snodo sta tutto qui, in quella parola “radicale”, ma capite bene che  a questo punto non si tratta più di linea politica, ma dell’essenza stessa di quello che dovrebbe essere un  partito della sinistra europea.

Invece la Schlein  sembra avere come  modelli di riferimento le sinistre alla Corbyn in Inghilterra,  Sumar in Spagna, Mélenchon in Francia, di Syriza in Grecia.

Tutta gente rispettabilissima intendiamoci, ma che c’entrano come  i cavoli a merenda con i Bonaccini, con i Gentiloni, con i Letta, e con quella stragrande maggioranza dei dirigenti dem che siedono nelle istituzioni, soprattutto negli Enti locali.

Gente che, come la Schlein, non sempre riesce a coniugare il fatto che un Partito progressista europeo deve essere sì di sinistra, ma anche di governo.

Ma davvero è stato questo il mandato  del “popolo delle primarie”?

Forse delle Sardine, dei Centri sociali, del mondo dell’antagonismo, sì!

Ma proprio non ci giurerei che questo fosse il sentiment di quella metà del partito che ha votato per Bonaccini!

Ma la “pasionaria de noaltri” sembra aver scelto la linea del non fare prigionieri, imponendo al partito non una correzione di linea, ma un vero e proprio mutamento di pelle, per di più basato su una gestione accentrata e verticistica. 

Evidentemente a lei non interessa perdere in blocco  i vertici liguri del partito, e immagino che continuerà sulla sua linea di riscoperta del conflitto sociale come l’alfa e l’omega della politica, dello statalismo inteso sia come faro che  come terreno di lotta, di un  pacifismo peloso che non discerne fra aggressori ed aggrediti, dell’antiamericanismo tipico di certa gauche, della ricerca di un asse con Giuseppe Conte, con  Nicola Fratoianni, con gli ex Articolo 1, con la Cgil di Maurizio Landini, senza ovviamente disdegnare la galassia più estremista dei Centri sociali. 

Che sia un caso che in questa situazione i notabili vogliano tutti traslocare a Bruxelles nel 2024, magari con la segreta speranza di rientrare quando la Schlein sarà uscita di scena prematuramente?

Si parla, solo per fare qualche nome, di Giorgio Gori da Bergamo, Dario Nardella da Firenze, Antonio Decaro da Bari, Nicola Zingaretti da Roma.

Ed è evidente che la Schlein non sia d’accordo su questa transumanza di esponenti “bonacciniani”, anche perché, si dice, sembrerebbe orientata a fare la capolista in tutte le circoscrizioni; ma ovviamente senza però correre il rischio di essere battuta alle urne da un compagno di partito.

Alle candidature per le Europee si aggiunge anche la grana delle elezioni regionali.

Non è mistero che gli attuali presidenti della Regione Campania, Enzo De Luca, della Puglia Michele Emiliano, dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, non disdegnerebbero di avere la possibilità di correre per un terzo mandato. 

Lei si è sempre dichiarata contraria al terzo “giro”, che richiede comunque una modifica legislativa. Dare il via libera al “cacicco” De Luca ed agli altri due le consentirebbe di compilare le liste per le europee a sua immagine e somiglianza, inserendo uomini e donne della galassia estremista; anche se ciò la esporrebbe all’accusa di aver ceduto al “partito degli Amministratori”. 

Ma dicendo di no potrebbe doverli candidare a Bruxelles, con il rischio di dover incassare una sonora sconfitta alle regionali, perdendo le uniche tre regioni rimaste in mano al PD, nonché numerose importanti città. 

Un dilemma da togliere il sonno a qualunque capo Partito! 

Ma che dimostra una volta di più che fra le semplificazioni degli slogan e la realtà c’è sempre una distanza abissale. 

Di questo passo si capisce perché Nicola Zingaretti sembra si sia lasciato andare ad un “con questa prendiamo il diciassette per cento!”.

E’ chiaro che la confusione presente nel campo progressista, e nel Pd in particolare, è musica per le orecchie di Giorgia Meloni.

La quale però, a mio modesto avviso, dovrebbe prestare maggiore attenzione ai segnali di calo del consenso per il suo Governo rilevato dai sondaggi più recenti.

Magari pensando ad un rimpasto con gente più preparata (non credo serva un elenco dettagliato!) ma soprattutto cercando di dipanare l’impressione che il suo Esecutivo non stia risolvendo nessun problema del Paese, e sia diventato un campione del “calcio della lattina”.

Perché da politica di lungo corso dovrebbe ben sapere che gli elettori prima o poi tirano le somme, e che le inerzie, i rinvii, i piagnistei, alla fine stancano.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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