6 Novembre 2025 - 9.33

Da New York con illusione: la vittoria di Mamdani e gli entusiasmi di casa nostra

“Splendida vittoria a New York!”, ha esultato Elly Schlein. “La sinistra torna a vincere, con parole e programmi chiari su stipendi dignitosi, sanità universale, diritto alla casa, trasporti e nidi gratis per chi non ce la fa”.

Angelo Bonelli ha fatto eco: “Vince la politica che sta con gli ultimi”, e Nicola Fratoianni ha aggiunto: “La vittoria di Zohran significa che negli Usa come in Italia si può fare”.

Ecco, il solito entusiasmo da esportazione.
Ogni volta che da qualche parte del mondo vince un candidato “di area”, da noi scatta la ola automatica. “Yes, we can”, vent’anni dopo Obama. 

Come se il voto a New York fosse parente stretto di quello ad Ancona.
Non mi stupirebbe se qualcuno, nei fumi dell’entusiasmo, avesse detto: “Abbiamo perso le Marche, ma abbiamo vinto a Manhattan!”

Non fraintendetemi: non ho alcuna intenzione di minimizzare la vittoria di Zahran Mamdani nella “Grande Mela”, che ha rappresentato senz’altro una sorpresa, dato che soltanto un anno fa il personaggio era assolutamente fuori da qualsiasi radar.

Non era facile ipotizzare che un giovane politico nato a Kampala (Uganda) nel 1991, musulmano, uno che si definisce socialista-democratico, definizione che negli Usa viene normalmente percepita come sinonimo di “comunista”, riuscisse a vincere prima le primarie democratiche, e poi le elezioni, nella città simbolo del capitalismo finanziario mondiale, con un programma molto progressista.

No, ripeto, non è stata un’impresa da poco. 

Ma confondere New York con l’America è come scambiare Milano per la Lombardia: la prima vive in un mondo a parte, la seconda è tutta un’altra storia.

New York è un laboratorio sociale, un unicum perfino negli Stati Uniti: giovane, meticcia, progressista.
Il voto urbano e quello suburbano sono ormai due pianeti diversi.
E Mamdani ha vinto grazie ad un blocco compatto di voto afroamericano e ispanico, mentre bianchi e asiatici hanno scelto in maggioranza Andrew Cuomo, anche lui democratico, ma molto più moderato.

Per questo sarebbe un errore leggere questa vittoria come la riscossa della sinistra americana in vista delle “Midterm” del 2026, o delle presidenziali del 2028.
Un errore che farebbe felice soprattutto Donald Trump, sempre pronto a trasformare un “socialista musulmano” nel perfetto bersaglio da campagna elettorale.

Il vero segnale di una riscossa democratica, semmai,  a mio avviso viene da altrove: dalla Virginia e dal New Jersey, dove per la prima volta sono state elette due governatrici democratiche, Abigail SpanbergereMikie Sherrill, entrambe dichiaratamente “moderate”.
O dalla Pennsylvania, dove tre giudici democratici – Christine Donohue, Kevin Dougherty e David Wecht – sono stati confermatiper un nuovo mandato di altri 10 anni all’interno della Corte Supremasicché, al momento, la Corte possiede una maggioranza democratica di 5 a 2.

Ma il voto che più ha fatto male a “Donald fàso tuto mì” è quello della California, con il referendum che restituisce al Governo dello Stato l’autorità di ridisegnare i distretti elettorali. 

È stato un voto apparentemente “tecnico”, in realtà molto politico.

Nel nord della California ci sono almeno cinque distretti che sono “molto repubblicani”; con questa legge glieli ridisegnano in modo da arrivare fino alla periferia di Sacramento, dove invece ci sono tanti elettori democratici. 

In pratica, hanno trovato il modo – a tavolino – per ridisegnare i distretti e aumentare le chance di vittoria dei democratici, e così probabilmente vincere la Camera al Congresso il prossimo anno. 

È una mossa molto importante, in risposta a qualcosa di analogo che i repubblicani stanno facendo in Texas, Missouri, Florida, Georgia e Ohio, dove le mappe elettorali sono state ridisegnate a vantaggio del Partito di Trump.

Anche questo è un segnale di vita del Partito Democratico, perché spostare la Camera – anche solo per uno o due voti – nel campo dei Dem, significa che negli ultimi due anni del suo mandato Trump non avrà la libertà di manovra che ha oggi, e sarà frenato da tanti punti di vista.

Sono questi i risultati che contano davvero, perché incidono sul potere reale, sui futuri equilibri del Congresso, e sul margine di manovra che Trump avrà nei prossimi anni.

Mamdani ha fatto promesse molto forti: autobus gratis, sostegno per l’assistenza ai bambini, case gratis… 

Tante misure a favore delle classi più disagiate, tante sfide al costo della vita a New York, che effettivamente è fuori misura, ma tutto questo finanziato con un aumento delle tasse ai ricchi che bisogna vedere se funzionerà, e sul quale poi il Sindaco ha potere fino ad un certo punto.

Trump gli tirerà addosso tutto quello che può, dal taglio ai finanziamenti federali per NY fino ad arrivare alla possibilità che mandi – come ha fatto a Chicago – la Guardia nazionale nelle strade di Manhattan, sostenendo che la città è ingestibile e pericolosa.

La vittoria di Mamdani, quindi, è soprattutto un segnale culturale: racconta  di una sinistra giovane, idealista, urbana, ma anche molto distante dal resto dell’America, quella del Midwest, del lavoro manuale, delle chiese evangeliche e delle armi in casa.

Ecco perché gli entusiasmi “provinciali” dei nostri progressisti mi fanno un po’ sorridere.
Va bene esultare, ma ricordiamoci che negli Stati Uniti nessun presidente democratico di peso — da Roosevelt a Kennedy fino a Johnson — è mai arrivato alla Casa Bianca con un profilo ideologico da sinistra pura.
Sono stati riformisti, certo, ma anche moderati e pragmatici.

Concludendo, il termine “socialista” a New York può suonare  romantico per i giovani delle periferie,  ma nel resto d’America  continua a far venire l’orticaria.
E mentre da noi  Schlein, Fratoianni e Bonelli gridano “abbiamo vinto a New York!”, negli Stati Uniti i democratici più avveduti si chiedono: sì, ma riusciremo a non perdere nuovamente l’America?

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