Cinquanta anni senza Franco. E la Spagna non è mai stata così viva

Ogni tanto guardarsi indietro a mio avviso non è un male. Aiuta a capire quanto lontano siamo arrivati; ed in quest’ottica mi sono ricordato che sono trascorsi 50 anni dalla morte di Franco e della fine del Franchismo.
Vent’anni dopo la sua scomparsa, in Spagna circolava una battuta: “Franco no ha muerto, está tomando un café con Elvis”.
Cinquant’anni dopo, possiamo dire che il Caudillo non prende più neanche il caffè: è definitivamente un fantasma.
Ma un fantasma che ancora, di tanto in tanto, si affaccia fra le pieghe della politica, nei bar dei nostalgici, e nelle parole troppo indulgenti di certi politici di Vox.
Francisco Franco Bahamonde morì il 20 novembre 1975, dopo un’agonia tanto lunga da sembrare una metafora del suo regime.
Era il dittatore, insediato anche grazie a Hitler e Mussolini, che aveva promesso agli spagnoli “l’ordine, la fede e la patria”.
Gli lasciò invece un Paese vecchio, immobile, impaurito e diviso.
Una Spagna in bianco e nero, dove la televisione trasmetteva messe, la censura tagliava i film francesi e la Guardia Civil controllava più i pensieri che le strade.
Eppure, dietro quella calma apparente, la bottiglia stava già sobbollendo.
Quarant’anni di tappo avevano compresso tutto: libertà, rabbia, musica, sensualità, ambizione, voglia di vivere.
Quando il tappo saltò, all’improvviso, la Spagna fece ciò che fanno le bottiglie di champagne tenute chiuse troppo a lungo: esplose.
Nel giro di un decennio, la “Spagna di Franco” diventò un’altra cosa.
Dall’autarchia grigia e contadina, passò a un’economia aperta, industriale, turistica.
Da Paese dove i Beatles erano proibiti a Paese dove si ballava la Movida madrileña, e si discuteva di Pedro Almodóvar.
Da patria della censura a laboratorio di libertà.
Persino la Chiesa, che per decenni aveva benedetto ogni discorso del Caudillo, si ritrovò spiazzata da un popolo che, di colpo, non andava più a messa ma ad Ibiza.
Il merito fu anche di una “Transición” che, a modo suo, è rimasta un miracolo politico: il Re Juan Carlos designato da Franco, che diventa il garante della democrazia; i partiti clandestini che diventano “parlamentari”; ed un Paese intero che decide, quasi senza vendetta, di voltare pagina.
Fu lo stesso Juan Carlos, nel 1981, a salvare la democrazia nascente quando, in divisa, apparve in TV ordinando ai militari golpisti che avevano occupato le Cortes con Tejero in armi, di rientrare nelle caserme.
Il franchismo, a mio avviso anche grazie a leader di sinistra democratica del calibro di Felipe Gonzàlez, fu archiviato come si archivia una pratica scomoda: senza clamori, ma con la netta sensazione che non valesse più la pena tornare indietro.
Tanto che di recente il Governo Sanchez ha fatto riesumare la salma del Caudillo dal monumentale mausoleo della Valle de los Caidos per inumarla in una tomba di famiglia del cimitero di Mingorrubio-El Pardo, vicino a Madrid. Chi temeva reazioni della destra è stato deluso.
Cinquant’anni dopo, quella Spagna è una delle democrazie più solide d’Europa, membro influente dell’Unione, moderna, caotica, europeista, femminista, e, perché no, anche molto rumorosa.
Il Caudillo, che sognava una nazione disciplinata e cattolica, oggi troverebbe un Paese dove si marcia per i diritti LGBTQ+, dove le Regioni rivendicano autonomia e persino indipendenza, e dove i preti sono più impegnati su TikTok che nelle sacrestie.
Eppure dire che il franchismo è morto del tutto sarebbe troppo comodo.
La verità è che le dittature non muoiono mai davvero: si nascondono nei detti, nei ricordi, nei voti di protesta.
Perché cinquant’anni sono lunghi nella storia, ma corti nella memoria.
Chi nel ’75 aveva quarant’anni, oggi ne ha novanta, e molti di loro hanno insegnato ai figli e ai nipoti che “ai tempi di Franco almeno c’era ordine”.
È la nostalgia che accompagna tutte le dittature: quando passa il terrore, resta solo la memoria selettiva del silenzio.
E quel silenzio, per alcuni, aveva un suo fascino.
In fondo è lo stesso atteggiamento di chi in Italia continua a sostenere che “anche Mussolini qualcosa di buono lo ha fatto”.
Poi c’è la politica.
Il partito Vox, con la sua idea di patria, tradizione, e centralismo, rappresenta oggi una specie di franchismo in giacca e cravatta.
Non rimpiange apertamente Franco, ma ne eredita lo spirito: la paura del caos, l’ossessione per l’identità, il rifiuto di tutto ciò che sa di “sinistra culturale”.
Se domani andasse al governo con il Partito Popolare, cosa che non escluderei, non sarebbe la restaurazione del franchismo, ma la prova che le ombre del passato possono convivere con la luce della democrazia.
Il franchismo, insomma, sopravvive come sopravvive la muffa sui muri delle case antiche: non si vede, ma c’è.
Non ti soffoca, ma ti ricorda che l’umidità è stata lì, e potrebbe tornare.
Eppure è impossibile immaginare oggi, nella Spagna del 2025, una vera riedizione di un regime autoritario come fu il franchismo.
Non solo perché la società è cambiata, ma perché il contesto stesso lo renderebbe ridicolo: internet, Bruxelles, il turismo globale, Netflix e il Real Madrid hanno fatto più per la democrazia che mille costituzioni.
E poi, diciamolo, un dittatore oggi non resisterebbe nemmeno su X: lo cancellerebbero a colpi di meme.
Nessuno potrebbe più chiudere una bottiglia che ormai è esplosa da decenni.
La Spagna post-franchista è diventata, paradossalmente, un modello di transizione pacifica per molti altri Paesi usciti da dittature: dal Portogallo dei garofani all’Italia post-fascista, fino all’Europa dell’Est del 1989.
Madrid ha dimostrato che la democrazia può nascere anche da una lunga notte, se c’è la volontà collettiva di svegliarsi.
Certo, resta la memoria.
Ci sono ancora vie e monumenti intitolati al Caudillo, cimiteri con croci falangiste, discussioni infinite sulla Ley de Memoria Histórica.
Ma Franco oggi è più un caso da museo che da tribunale.
È un nome che divide gli storici più che i cittadini, un reperto di un tempo in cui il potere aveva bisogno di statue per sentirsi eterno.
Cinquant’anni dopo, la Spagna si guarda allo specchio e vede tutto il contrario di ciò che Franco voleva: libertà di parola, governo di sinistra, femminismo, movimenti catalani e baschi, turismo di massa, musica, cinema, disordine e vitalità.
Il Caudillo sognava un Paese “como Dios manda”.
Dio, evidentemente, aveva altri piani.













