9 Maggio 2023 - 8.35

Cina: ragazzi, tutti a zappare!

Vi siete mai chiesti quale sia per i “Mandarini cinesi” la “conditio sine qua non” per tenere in piedi il regime?

Una sola in realtà: una crescita economica robusta e costante.  

Ma non gli 0,5% che fanno esultare l’Italia, bensì tassi del 5% o più, che garantiscono che tutta la popolazione possa vivere più o meno dignitosamente.

Certo a vedere le immagini di città come Shanghai l’impressione è che siano già tutte rose e fiori, ma tenete sempre presente che la Cina è molto grande, e fuori dai grandi agglomerati urbani i miliardari non abbondano, e la qualità della vita è ben diversa rispetto ai grandi centri.

Si può discettare all’infinito se la Cina di Xi Jinping sia una Stato comunista, o se rappresenti, come alcuni affermano, “la via comunista al capitalismo”, ma in fondo la “filosofia” dei regimi comunisti ci dice che in Unione Sovietica lo scambio Stato-cittadino era “non occorre che lavori tanto, basta che non ti interessi di politica”; ed anche in Cina la logica del contratto sociale è simile, ma con qualche accento diverso: “tu rimani fuori dalla politica, noi ti garantiremo che ogni anno vivrai meglio dell’anno scorso”.

Ma in Cina si lavora duro eh: per esempio per i colletti bianchi vige il famigerato programma 996, che prevede che si lavori dalle nove di mattina alle nove di sera, sei giorni su sette, quindi per 72 sfiancanti ore settimanali, senza straordinari o permessi retribuiti (chissà cosa direbbe la Cgil?).

Ecco perché la crescita costante è così vitale per la Cina; perché crescere vuol dire creare sempre nuovi posti di lavoro, sempre più giovani da inserire nelle attività economiche. 

Se non che ad interrompere questa narrazione ci ha pensato il Covid, e soprattutto la strategia “zero Covid”, culminata nella chiusura di intere aree urbane, quando non intere regioni, che ha rallentato, sino quasi a fermarla, la macchina produttiva del Paese, sbocco principale per i neolaureati.

La Cina ha spinto moltissimo negli ultimi anni perché sempre più giovani completassero gli studi universitari (leggete su Tviweb il mio pezzo del 27 marzo scorso dal titolo “Provate voi a superare il GaoKao), e adesso si trova con una grande massa di laureati sul mercato.

Quindi il paradosso è che mai i giovani cinesi sono stati così istruiti, eppure uno su cinque non riesce a trovare lavoro. 

Un numero fra l’altro destinato a crescere perché si stima che solo quest’anno altri 11,6 milioni di giovani si laureeranno, ed andranno ad ingrossare le file dei disoccupati.

In poche parole anche nella seconda economia del mondo si è creato uno squilibrio fra l’offerta e la domanda di posti di lavoro, in un contesto caratterizzato da poca mobilità sociale, con un livello di disoccupazione nella fascia tra i 16 ed i 24 anni che arriva al 19% (molto più alta della media nazionale del 5%).

Vi starete chiedendo: ma in fondo noi occidentali siano abituati a tali percentuali di disoccupazione giovanile; allora perché questo allarme?

Perché la Cina è uno Stato fortemente autoritario, in cui le libertà di pensiero e di protesta sono fortemente limitate dal regime, e questa repressione costante, in caso di una situazione prolungata di malessere giovanile, potrebbe innescare disordini sociali, come quelli, isolati, che si sono intravisti a fine novembre, con manifestanti che hanno osato chiedere apertamente la rimozione di Xi Jinping,  indicato come responsabile dei danni causati dalla strategia Zero Covid (sono stati questi disordini a indurre Xi a decretare la fine dei lockdown). 

I Mandarini dei palazzi del potere, nonché i loro omologhi a livello locale, li conoscono bene questi rischi di rottura della pace sociale, e di conseguenza i vertici del Partito hanno cominciato a ragionare sul come disinnescare la bomba. 

Vi ricordate quali attacchi anche personali dovette subire l’ex Ministro Elsa Fornero per aver sostenuto che i nostri ragazzi non devono essere troppo “choosy”, troppo esigenti, troppo schizzinosi, quando cercano un impiego?

E che “occorreva  accontentarsi di quello che offre il mercato, per poi cercare di migliorare”, sosteneva sempre la professoressa prestata alla politica. 

Ebbene, gli stessi discorsi di Elsa Fornero li sta facendo niente meno che la “Lega della gioventù comunista cinese”, che ha criticato i giovani diplomati e laureati perché “non sembrano rendersi conto delle difficoltà della nuova realtà, dopo trent’anni e passa di crescita”.

E la ricetta per superare il problema?    Eccola: “Bisogna che si tolgano la giacca, si rimbocchino le maniche e accettino di stringere bulloni in fabbrica, o tornare a coltivare la terra”.

In pratica il regime accusa i suoi giovani laureati di essere pigri ed arroganti.

Ma poiché in Cina, come sappiamo bene, non è che ci si perda tanto in discussioni, in consultazioni con  Sindacati indipendenti con non esistono (esiste solo la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi -FNSC- , un’organizzazione di massa che oggi conta oltre 300 milioni di membri, e continua a funzionare come una cinghia di trasmissione con il Partito), il Guangdong, la provincia più ricca del Paese, ha deciso di mandare 300.000 giovani disoccupati nelle campagne per due o tre anni a trovare lavoro. 

Non è che la cosa abbia stupito più di tanto, visto che lo scorso dicembre lo stesso Presidente Xi Jinping ha lanciato un appello  ai giovani che vivono nei grandi conglomerati urbani a cercare lavoro lontano dalle città, nel tentativo di “rivitalizzare l’economia rurale”

Non si tratta di una ricetta del tutto nuova per la Cina.  

Chi non è più giovane ricorda certamente che  il 22 dicembre 1968 Mao Tze Tung diede il via alla  migrazione forzata di milioni di giovani cinesi dalle città verso le campagne. Fu uno dei più massicci e devastanti movimenti di massa nella storia della Repubblica Popolare Cinese (secondo soltanto al precedente movimento delle Guardie Rosse del 1966-68) e nel cui ambito i “giovani istruiti”, o zhiqing, che avevano preso parte alla Rivoluzione Culturale, furono inviati nelle aree più povere del paese per venirvi “rieducati dalle masse”, ossia per completare la loro formazione politica accanto ai contadini (si trattò di 16 milioni di ragazzi che  vennero poi definiti “la generazione perduta della Cina”). 

Come si vede, alla fine non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole, e come allora adesso i leader cinesi pensano che costringere i giovani laureati a trasferirsi  in villaggi di campagna contribuirebbe ad attenuare le tensioni e le proteste nelle città, e forse anche a ridurre le disparità di reddito tra le varie zone del Paese.

C’è da dire, come curiosità, che Xi Jinping conosce bene quella migrazione forzata, perché lui stesso, come moltissimi suoi coetanei, da giovane trascorse alcuni anni lavorando in campagna. 

Magari hanno ragione loro, e magari la ricetta potrebbe essere valida anche per i nostri “Choosy”.  

Anche se non credo sarebbe facile convincere mamme e papà italiche che i loro “pargoli” neo laureati sono “braccia rubate all’agricoltura”!

Per chiudere, ho letto che, in conseguenza di questa penuria di posti di lavoro, sono enormemente aumentate le visite ai tempi di culto (di tre volte rispetto alla media): evidentemente i giovani disoccupati cinesi pensano che magari una preghiera alla divinità possa aiutarli.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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