Se Goebbels avesse avuto Tik Tok

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Umberto Baldo
Una mattina, passeggiando, mi sono posto una domanda: ma Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda del Terzo Reich, come avrebbe usato Tik Tok, Instagram o Facebook?
Non servono grandi premesse: Goebbels fu il regista della macchina mediatica che trasformò un uomo mediocre come Hitler nel “salvatore” della Germania, diffondendo odio razziale e culto del Führer.
Non era un credente cieco delle proprie menzogne: era un tecnico della manipolazione, un genio oscuro del marketing politico.
Eppure, a disposizione aveva solo radio, cinegiornali, quotidiani e i grandi raduni oceanici.
Mezzi sicuramente potenti per l’epoca, ma niente in confronto al bombardamento in tempo reale che ci regalano i social.
È inquietante pensare che con quattro stories al giorno e due dirette su TikTok avrebbe potuto raggiungere miliardi di persone, intercettando umori, modellando opinioni, creando consenso istantaneo.
Ma, in fondo, non serve nemmeno immaginarselo troppo: oggi la logica della propaganda è la stessa, sono cambiati solo gli strumenti.
Dai manifesti elettorali che nessuno guarda più, siamo passati al post virale che costa zero e ti porta in casa di milioni di cittadini.
Non a caso i politici di ogni latitudine hanno abbandonato colla e pennello per abbracciare smartphone ed algoritmi.
E qui arriviamo fatalmente al problema dell’oggi.
Quello che, poiché i social media stanno diventando sempre più la piattaforma primaria cui attingere informazioni, ovviamente sono anche un campo da gioco per la propaganda e le campagne di disinformazione.
Fino all’ avvento dei social, se uno voleva sostenere la veridicità di una notizia spesso diceva “lo dice anche il giornale!”.
Oggi che i giornali cartacei sembrano strumenti preistorici, la cui diffusione sempre più scarsa interessa solo gli anziani come me, diventa sempre più comune sentir dire “l’ho visto o sentito su Internet”, finendo per dare autorevolezza a qualsiasi sciocchezza.
Guardate che, pur avendolo capito un po’ in ritardo, i politici adesso sono ben consci che se vogliono veicolare i loro messaggi ad un gran numero di cittadini l’unica strada è quella di usare i social.
E vi confesso che vedere la Presidente del Consiglio italiana (ma questo vale ormai per tutti i politici) postare abitualmente i propri messaggi su Tik Tok o Facebook, solo per citare un paio di social, francamente mi fa ancora un certo effetto.
Capisco che i tempi sono cambiati, ma cosa volete, io sono ancora legato ad una comunicazione più “istituzionale”
Il problema è che, assieme alla propaganda “classica”, la Rete ha spalancato le porte alle fake news: bugie costruite per sembrare vere, diffuse da account fantasma e condivise senza freni.
In questo modo la combinazione tra propaganda politica e fake news ha creato un terreno fertile per la disinformazione, la polarizzazione e la manipolazione dell’opinione pubblica.
A complicare le cose, ci si mette ora anche l’Intelligenza Artificiale, con deepfake che mostrano leader politici intenti a dire cose mai dette, video realistici ma falsi, audio manipolati con precisione chirurgica.
Altro che vignette satiriche: qui siamo di fronte a strumenti capaci di minare la fiducia nelle Istituzioni, e piegare l’opinione pubblica in pochi secondi.
Questi deepfakesono potenzialmente devastanti, perché possono essere utilizzati per diffamare avversari politici, diffondere disinformazione o creare confusione.
Specialmente in un pubblico sempre più disorientato, culturalmente e politicamente sempre più impreparato, spesso privo di qualsiasi riferimento ideologico.
Avrete capito che penso soprattutto ai giovani, cresciuti con Internet, e quindi maggiormente esposti alle influenze di chi vuole influenzarli o manipolarli.
La democrazia, per sua natura, lascia aperto il campo di gioco.
E così, mentre in Occidente i social diventano il terreno libero dove si combattono consenso e disinformazione, nei regimi autoritari Internet viene filtrato, censurato, blindato.
I dittatori, a casa loro, vietano e censurano; da noi, usano le nostre stesse libertà come armi.
Goebbels non ha mai detto davvero la famosa frase: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte, e diventerà verità”.
Ma, in fondo, ciò è irrilevante: la bugia attribuita a lui funziona proprio perché sembra uscita dalla sua bocca.
E forse è questa la lezione più amara: che la propaganda non ha bisogno di essere vera, basta che sembri verosimile.
Alla fine, la differenza tra la propaganda di ieri e quella di oggi è tutta qui: prima servivano i cinegiornali, gli stadi pieni, gli altoparlanti; oggi basta un meme azzeccato.
Goebbels avrebbe speso una vita a studiare le tecniche, oggi un influencer qualsiasi lo batte con due reel da trenta secondi.
Forse non è un progresso, anzi: è la prova che ci siamo resi un popolo manipolabile… ma a costo zero.
In definitiva se non impariamo a riconoscere le bugie travestite da verità, se non educhiamo soprattutto i giovani a distinguere tra realtà e manipolazione, la democrazia rischia di essere distrutta non dai carri armati, ma dagli smartphone.
E allora non avremo più bisogno di chiederci cosa avrebbe fatto Goebbels con i social: lo vedremo con i nostri occhi, in diretta.













