17 Luglio 2025 - 9.55

Diritti umani: patrimonio universale o illusione occidentale?

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Certe riflessioni, almeno per me, nascono sempre all’alba. Quando la città dorme e il pensiero respira.  

Così ieri  mattina mi sono ritrovato a rimuginare su un tema immenso: i diritti dell’uomo.

Sì, “vaste programme!”, come disse De Gaulle. 

Lo so. Ma se ci pensate bene, l’estensione di un tema non esonera nessuno dal dovere di interrogarsi. 

Anche noi, persone comuni, ogni tanto possiamo permetterci un pensiero alto.

La miccia? 

Una semplice scena: una famigliola, madre velata secondo un costume che potremmo chiamare “musulmano”. 

Nulla di clamoroso. Eppure mi sono chiesto: quella donna, si sente limitata nei suoi diritti? O forse il suo concetto di libertà è semplicemente diverso dal nostro?

Non è una domanda da bar. L’abbigliamento, in questo caso, è un simbolo. 

Dice molto, e non solo su una persona, ma su un’intera visione del mondo. 

Perché in certe società, il corpo femminile non è solo questione estetica: è un terreno di controllo, di identità, di cultura.

Allora mi chiedo: cos’è che distingue davvero l’Occidente dal resto del mondo?

Potremmo rispondere in mille modi, ma se grattiamo via le sovrastrutture, se andiamo “allo strucco”, come si dice a Napoli, la vera differenza è una: i diritti umani. 

O, meglio, l’idea che certi diritti siano universali, inalienabili, e precedano qualsiasi legge scritta.

È un’idea che ha radici antiche e profonde, intrecciate con la filosofia greca, il cristianesimo, il diritto romano. 

Ma la vera esplosione — teorica e politica — arriva con due rivoluzioni: quella americana e quella francese.

“Tutti gli uomini sono creati uguali”, proclamarono a Filadelfia il 4 luglio 1776, “e sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”.

E pochi anni dopo,  nel 1789 a Parigi: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”.

Da lì in poi, partendo da quelle basi culturali, l’Occidente ha fatto dei diritti umani il proprio Vangelo laico, fino ad arrivare, il 10 dicembre 1948, all’approvazione all’Assemblea Generale dell’Onu della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Un percorso che ha portato ad una sintesi difficile, travagliata, tra lo spirito cristiano e la ragione illuminista. 

Nessuno ha vinto davvero, ma proprio da quel conflitto è nata una civiltà nuova. 

Non perfetta, ma rivoluzionaria.

L’Europa, nel frattempo, si era fatta Occidente. 

E insieme ai neonati Stati Uniti ha cominciato a esportare — o forse imporre — i propri valori nel resto del mondo. 

Con tutte le ambiguità del caso: colonialismo, guerre, ipocrisie. 

Sì, le conosco anch’io. Non ho alcuna intenzione di difendere i crimini commessi in nome del “progresso”.

Eppure, la questione resta. Perché oggi, proprio oggi, quei valori sembrano in crisi. 

Non tanto da noi, quanto fuori da noi. 

Per il resto del mondo, spesso, non sono valori: sono intrusioni.

E noi, per coprire l’imbarazzo, abbiamo inventato una parola rassicurante: multiculturalismo

Ma dietro ogni lingua, ogni abito, ogni abitudine, c’è una diversa visione dell’uomo. E queste visioni non sempre sono compatibili.

A volte si traducono in conflitto aperto. Come nel caso di Saman Abbas, la giovane pakistana uccisa dalla sua stessa famiglia per aver detto no a un matrimonio forzato. 

Un delitto d’onore, dicono. No, diciamolo meglio: un delitto culturale, visto che ha coinvolto gli stessi genitori della ragazza. 

Ci illudiamo che con il tempo certe pratiche scompariranno. 

Ma non si tratta di folklore. Si tratta di un altro modo di concepire l’individuo, la libertà, la dignità. 

Quando un padre impone un matrimonio o una madre pratica la mutilazione genitale sulla figlia, non lo fa solo per “tradizione”: lo fa perché non crede nei diritti umani così come li intendiamo noi. 

Non ci crede, punto.

E allora? Allora forse dobbiamo riconoscere una cosa scomoda: l’universalismo occidentale è un’illusione. 

I nostri diritti non sono universali: sono culturali. E oggi, in un mondo che cambia pelle e geografia, sono anche minoritari.

L’Occidente si sta restringendo. Geograficamente, culturalmente, demograficamente.

La mia impressione è che ora quell’Occidente sia anche stanco, affaticato, invecchiato. 

E forse peggio: ha perso fede in sé stesso.

La sinistra postmoderna, in preda ad un relativismo suicida, preferisce parlare di diritti culturali piuttosto che universali. 

La destra, dal canto suo, si limita a usare il tema dell’identità come manganello elettorale, senza alcuna visione. Nel mezzo, una società spaventata, incapace di distinguere tra integrazione e sottomissione.

E così mentre noi discutiamo di libertà ed autodeterminazione, il resto del mondo — gran parte del mondo — cammina in un’altra direzione.

Allora sì, dobbiamo farci una domanda scomoda: e se i diritti umani non fossero affatto universali?    Se fossero un prodotto culturale, e come ogni prodotto culturale, validi solo nelle cosiddette società occidentali, nonovunque?

E allora che fine fa la nostra pretesa di rappresentare “la civiltà”? 

Resta in piedi solo se siamo pronti a difenderla. Ma difenderla davvero, non solo a parole. Con scelte politiche. Con politiche migratorie coerenti. Con un’educazione pubblica che insegni i diritti ma anche i doveri, invece di vergognarsene. 

E soprattutto con il coraggio di dire che alcune culture — sì, alcune culture — sono incompatibili con la nostra.

Non è razzismo, è realismo. 

È la consapevolezza che non tutto può convivere. Che tollerare l’intollerabile, in nome della diversità, è solo un’altra forma di resa.

MI ripeto, l’Occidente oggi è un villaggio sempre più piccolo, sempre più vecchio, sempre più incerto. 

Ma o difende ciò che ha costruito, oppure finirà per essere una nota a piè di pagina nei libri di storia. 

Con buona pace dei suoi diritti universali.

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