30 Novembre 2020 - 9.32

50 anni di… divorzio: una libertà ‘scontata’, come tante altre

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di Stefano Diceopoli

A ben guardare ogni data rappresenta l’ anniversario di un fatto accaduto nella storia.
Ma ci sono anniversari ed anniversari, e quello che ricorre il 1° dicembre 2020 è di quelli che hanno veramente contribuito a cambiare la società italiana.
Esattamente 50 anni fa, il 1° dicembre 1970, veniva approvata dal Parlamento italiano la legge n.898, più nota come legge sul “divorzio”.
Le giovani generazioni di donne, sicuramente la maggioranza di chi legge questo articolo, sono nate e cresciute con tutta una serie di diritti acquisiti, e per questo danno per scontata la possibilità di realizzare la propria vita secondo le proprie scelte personali. Adesso le donne, almeno sulla carta visto il persistere di casi di violenza familiare e di femminicidio, sono cittadine di serie A, al pari degli uomini. Esse sono padrone di se stesse e godono dell’eguaglianza giuridica e di tutti gli stessi diritti degli uomini. Possono accedere a tutte le professioni e a tutti gli uffici.
Sembra una cosa scontata, ma non è sempre stato così.
Senza andare tanto indietro nei secoli, nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello di essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne, se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro, perché ciò spettava al marito. Avevano bisogno dell’ “autorizzazione maritale” per fare una donazione, per vendere un immobile, per contrarre un mutuo, per cedere o riscuotere capitali, e non potevano fare transazioni o sedere in giudizio.
Dicendola in breve, in passato la donna era un accessorio del capofamiglia, prima il padre e poi il marito.
L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
E pensate che fino al 1956, anno in cui venne smantellato dalla Corte di Cassazione, era vigente il cosiddetto “ius corrigendi” del marito nei confronti della moglie, che comprendeva anche la coazione fisica. Al di là della terminologia giuridica, in parole povere la legge ammetteva che il marito non solo avesse il diritto di decidere tutti i rapporti familiari, ma anche di “correggere con calci e pugni” i comportamenti della moglie giudicati non in linea.
Tanto per darvi un’idea, un noto pensatore come Vincenzo Gioberti asseriva che: “La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostenta da sé”. O Antonio Rosmini per cui: “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”.
Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, e questo fino alla sua riforma nel 1975, cent’anni dopo Roma Capitale.
Come corollario era evidente che alle donne era negato qualsiasi diritto politico, ed il diritto al voto fu concesso solo il 1° febbraio del 1945.
Ma lunga è stata anche la strada per vedere riconosciuto alle donne ad esempio il diritto di entrare in Magistratura. Tanto per capire quali fossero i sentimenti ed i pregiudizi diffusi in parte dei deputati all’Assemblea Costituente, l’on Antonio Romano nel 1947, nel corso dei lavori, dichiarò: “La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa.”
Con questi toni ci si esprimeva addirittura alla Costituente, toni rappresentativi di una cultura che identificava la donna con il corpo e con le sue funzioni riproduttive, e la confinava nella sfera domestica.
A questo punto vi starete certamente chiedendo quale sia il rapporto fra il processo di emancipazione della donna e quel 1° dicembre 1970.
Risposta semplice: perchè quella è una data “spartiacque”.
Una data in cui si creò una prima crepa nella “diga” della vecchia costruzione giuridica limitativa dei diritti delle donne.
E si sa che quando in una diga si determina una crepa, prima o poi viene giù tutto.
Sono passati tanti anni lo so, e mi rendo ben conto come oggi per le giovani donne sia difficile immaginare anche lontanamente quale fosse il clima di allora.
Io lo ricordo bene perchè avevo 18 anni ed ero studente liceale.
L’Italia era praticamente spaccata in due. Da un lato la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano, strenuamente contrari, e dall’altro tutti gli altri Partiti, però con il Pci stranamente un po’ titubante.
E a sovrastare il tutto la Chiesa cattolica, che dal Vaticano all’ultimo parroco di campagna, dai pulpiti ammoniva i fedeli che il divorzio avrebbe distrutto la famiglia cristianamente intesa, oltre che rappresentare un peccato (L’uomo non separi ciò che Dio ha unito).
In breve quasi una guerra di religione, con toni che accesero per mesi gli animi, e riempirono le pagine dei giornali (allora i social non c’erano, se no ci sarebbe stato di che divertirsi dato il tema).
Ma con l’approvazione della “legge sul divorzio” la vicenda non era ancora finita. Infatti il mondo clericale promosse un referendum per l’abrogazione della normativa, che fu il primo referendum abrogativo della Repubblica Italiana. E finalmente il 12 e 13 maggio del 1974 gli italiani votarono massicciamente a favore del mantenimento dell’istituto del divorzio.
Sia la Chiesa che la Democrazia Cristiana, e come accennavo anche il mondo comunista, non si resero conto che la società italiana era notevolmente cambiata, e le leggi ed il referendum avevano in parte sancito tale cambiamento.
Dico in parte perchè rimanevano ancora nell’ordinamento giuridico tracce della passata discriminazione delle donne, quali ad esempio la legge che contemplava lo stupro e l’incesto fra i “delitti contro la morale”; e si dovette arrivare al 1996 perchè venisse sancito che si tratta di crimini “contro la persona”, che viene coartata nella sua libertà sessuale, e non contro la morale pubblica.
Come accennavo, abbattuto il tabù del divorzio, a cascata i vecchi schemi caddero uno dopo l’altro.
E così nel 1975 venne riformato il diritto di famiglia, garantendo finalmente la parità legale fra i coniugi, e la possibilità della comunione dei beni.
Ed il 22 maggio 1978 venne approvata la legge n. 194, che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto.
Sono ben cosciente che certe cose lontane nel tempo rischiano di materializzarsi come immagini sfuocate.
Ma ricordare è un dovere civico e morale! Ricordare soprattutto quegli uomini e quelle donne, molti scomparsi ma molti ancora viventi, che con il loro impegno civile resero possibili quelle conquiste di civiltà che hanno dato alle donne quel ruolo di parità che spetta “naturalmente” nel consorzio umano, e nella specie nella società italiana.
Ecco perchè ho ritenuto opportuno dedicare queste righe a questo anniversario, a quel 1° dicembre 1970 che cambiò l’Italia.
Ma mantenere vivo il ricordo serve anche per non dare per scontato che i diritti siano acquisiti per sempre.
La libertà va difesa ogni giorno, senza tentennamenti.
E lo sanno bene le donne polacche che in questi mesi stanno lottando nelle piazze contro un Governo che sta facendo scelte illiberali, tanto da attirare le reprimenda dell’Unione Europea.
Ed i diritti delle donne fanno parte di questo disegno restauratore.
Tanto per capire di cosa stiamo parlando, giovedì 22 ottobre la Corte Costituzionale polacca ha stabilito che l’aborto per gravi malformazioni del feto viola la Costituzione. La Polonia aveva già una delle legislazioni sull’aborto più restrittive d’Europa. Fu approvata nel 1993 e consentiva l’aborto solo in tre casi: pericolo di vita per la madre, stupro e, appunto, grave malformazione del feto. Il 98 per cento delle procedure abortive del paese venivano praticate per quest’ultimo motivo: la sentenza della Corte determinerà dunque un divieto quasi totale di interruzione di gravidanza.
Il risultato di queste disposizioni, volute dal Governo appoggiato da diversi gruppi cattolici e dai vescovi vicini all’Esecutivo, è che si stima siano tra 100mila e 200mila le donne polacche che ogni anno saranno costrette a ricorrere all’aborto clandestino, o ad andare all’estero per poterne avere accesso (in genere in Slovacchia, Repubblica Ceca, Germania o Ucraina).
Era esattamente quello che succedeva in Italia prima del 1978, in cui per le donne ricche c’erano le cliniche svizzere, e per quelle povere le “mammane”.
Comprensibile quindi la reazione di Dunja Mijatović, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che ha commentato su Twitter la sentenza della Corte Costituzionale polacca dicendo che è un «giorno triste per i diritti delle donne».
I fatti della Polonia sono gravi, e per questo devono indurre alla riflessione, ricordandoci che l’emancipazione femminile è la strada per la libertà di tutti.

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