5 Marzo 2018 - 11.34

EDITORIALE – Vincono M5S e Lega ma il Paese è sempre più diviso

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di Marco Osti

Il risultato delle elezioni consegna come vincitori il Movimento 5 Stelle e Luigi di Maio, con in scia Matteo Salvini e la Lega.
Questi risultati evidenziano che gli italiani stanno continuando nella loro spasmodica ricerca di un leader a cui affidare il destino del Paese.
Si sono per anni lasciati affascinare dalle promesse mai mantenute di Silvio Berlusconi, hanno sperato che Romani Prodi riuscisse a tenere unito il centrosinistra, si sono buttati senza remore tra le braccia di Matteo Salvini.
Oggi ci riprovano con Di Maio e Salvini, le cui liste insieme raggiungono un consenso molto prossimo al 50 per cento.
Una percentuale che diventa più alta se a M5S e Lega si sommano i partiti che sono fuori dall’attuale maggioranza e spesso lo rivendicano attraverso una forte contrapposizione verso il sistema.
La sensazione è che non dipenda dai risultati ottenuti dalla maggioranza attuale, dal Governo in carica o dai programmi proposti, ma da un desiderio di rivalsa contro un establishment magari votato l’ultima volta, ma già da sostituire, già da identificare come causa dei mali di un Paese che invece per risolvere i suoi problemi endemici e profondamente legati al debito pubblico dovrebbe darsi una prospettiva concreta e costruttiva.
Il Movimento 5 Stelle ha in programma di ridurre il debito in rapporto al Pil, ma non spiega come, mentre al contrario teorizza l’abbandono dell’austerità e l’aumento della spesa pubblica, ipotizzando anche il reddito di cittadinanza.
La Lega ha ridotto la portata del messaggio anti euro con cui aveva iniziato la campagna elettorale, ma non l’ha del tutto abbandonato, si è scagliata con Salvini contro immigrati e omosessuali, ha strizzato l’occhio ai cattolici sventolando il Vangelo in piazza ed è andata a braccetto, con movimenti di chiaro stampo fascista, dando loro visibilità e un accreditamento.
Quasi metà degli italiani ha dato fiducia a chi ha sostenuto queste proposte, in un clima in cui sembra che non fosse tanto importante cosa venisse dichiarato, ma la volontà di avere una guida diversa del Paese rispetto a quella attuale.
A prevalere è stata la logica del contro a prescindere, quella che dispensano gli haters sui social media, quella che è più facile divulgare con uno slogan da un palco o con un tweet, quella che non vuole governare le paure, ma anzi le crea e le alimenta, quella che divide le comunità tra chi deve essere incluso e chi cacciato.
Anche Renzi quando andò al potere sfruttò alcuni di questi elementi per sconfiggere e poi emarginare, prima dal suo partito, e poi nel dibattito politico, chi c’era prima di lui.
Una logica iconoclasta con la quale divise l’Italia e lo stesso Partito Democratico, a dimostrazione che contrapposizione produce contrapposizione.
Quello che ha votato il 4 marzo è quindi un Paese lacerato, imbevuto di rancore e sfiduciato, che ancora una volta però decide di affidarsi al progetto di un leader o di una parte la cui caratteristica non è l’inclusione, ma la rivendicazione della propria supremazia, politica e morale.
La grammatica istituzionale impone però un dialogo per trovare soluzioni di Governo, ma, prima ancora, per eleggere i presidenti di Camera e Senato.
E il percorso da affrontare pare tutt’altro che semplice.
Il risultato elettorale infatti è inequivocabile nell’identificare chi ha vinto e chi ha perso, ma lo è molto meno nell’ottica di individuare chi potrà formare un Governo in grado di svolgere in pieno il suo operato.
Un processo che in prima istanza deve vedere protagonista il Movimento 5 Stelle, il quale, quando poteva, dopo le elezioni del 2013, andare al Governo con il Pd, liquidò l’ipotesi in diretta streaming con toni accesi e arroganti.
Solo con un atto di grande responsabilità politica il centrosinistra potrebbe quindi offrirsi come sponda di Governo, considerando le differenze sostanziali dei programmi e posto che il Partito Democratico dovrà ripensare se stesso, e probabilmente il ruolo di Renzi, alla luce del disastroso risultato ottenuto.
Sul fronte del centrodestra la coalizione raggiunge una quota superiore al 30 per cento insufficiente per poter governare ed è chiaro che la leadership è passata a Salvini per l’impossibilità di Berlusconi di poter continuare a essere credibile, data l’età e la condanna subita, e soprattutto per la grave responsabilità di non aver nel tempo prodotto una seria soluzione per la sua successione e per la costituzione di un polo realmente moderato ed europeista.
La Lega, magari con Fratelli d’Italia, potrebbe quindi pensare a un’alleanza con il M5S, ma è altamente improbabile che Salvini, date anche le prospettive di leadership futura, sia oggi disposto a entrare in una maggioranza di cui il vertice sarebbe Di Maio.
Così, a urne chiuse, e calata l’euforia post elettorale, il Paese si troverà di nuovo smarrito e diviso, pronto a essere travolto da nuovi slogan infarciti di dileggio e offese, magari verso chi oggi ha avuto un larghissimo consenso.

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