26 Settembre 2023 - 9.32

Se muori presto… ti diamo più pensione!

Umberto Baldo

Poiché leggere il quotidiano in versione cartacea è ormai un’abitudine da persone di una certa età, e poiché in quella fase della vita si è più portati a credere a quello che riportano i giornali quasi fossero verità rivelate, immagino che molte persone abbiano avuto un tuffo al cuore di fronte alla notizia di cui vi parlerò oggi, tanto da indurre il Governo a far trapelare che “si tratta di uno studio e non di un’ipotesi concreta”.

Ma vediamo di cosa si tratta.

Innanzi tutto si parla di pensioni (già di per sé argomento particolarmente sentito dai “diversamente giovani”), ed in particolare di uno studio prodotto dall’Inps dal titolo “Rapporto annuale sulle differenze nella speranza di vita tra abbienti e meno abbienti”.

Già il titolo presenta caratteri ansiogeni!

Si sa che l’Inps è il principale ente erogatore di pensioni, e come tale è in possesso di una mole spaventosa di dati.

E si sa anche che, avendo i dati, si può procedere ad analisi statistiche, e quella elaborata per lo Rapporto predetto è sicuramente di quelle “particolarmente” delicate per le possibili conseguenze.

Allora, dai “numeri” in proprio possesso l’Inps fotografa un quadro in base al quale si scopre, in estrema sintesi, che un dirigente vive più a lungo di un operaio, o che un pensionato residente in determinate aree geografiche ha una longevità più elevata di quella di un pensionato di altre Regioni. 

In altre parole esisterebbe una diretta correlazione tra lavori svolti, luoghi di residenza, e aspettative o speranze di vita.

Per essere ancora più chiaro ci sono lavoratori che, arrivati a 67 anni, una volta andati in pensione vivono mediamente più a lungo di altri.  E lo stesso vale per i pensionati che vivono in determinate Regioni.

Alcuni giornali hanno anche fornito accurate tabelle di raffronto che confermano questo studio.

E così un coltivatore diretto maschio andato in pensione dopo i 67 anni avrebbe mediamente 17,7 anni di aspettativa di vita, contro i 19,7 di un dirigente. E lo stesso lavoratore che abitasse in Campania avrebbe mediamente un’aspettativa di vita di 17 anni, contro i 17,9 se risiedesse in Veneto.

Analogamente gli uomini che vivono nelle Marche e in Umbria hanno una speranza di vita (e dunque sulle mensilità pensionistiche che uno riceverà più o meno) di altri 18,3 anni dopo la pensione (67 anni), mentre le donne più longeve sono quelle del Trentino Alti Adige, con una speranza di vita media dopo il pensionamento di 21,6 anni.

Il problema, secondo l’Inps, sta nel fatto che il coefficiente che trasforma in assegno i contributi versati nell’arco della vita professionale è unico e uguale per tutti gli italiani, siano maschi o femmine, indipendentemente da dove risiedano, e qualunque lavoro abbiano svolto. 

Per cui “risulta fortemente penalizzante per i soggetti meno abbienti il cui montante contributivo viene trasformato in una pensione più bassa di quella che otterrebbero se si tenesse conto della loro effettiva speranza di vita», spiega l’Inps. 

Viceversa “i più abbienti ottengono pensioni più elevate di quelle che risulterebbero da tassi che tenessero conto della effettiva durata media della loro vita”.

L’Istituto rileva anche che i pensionati che appartengono al primo «quintile di reddito», ovvero alla classe più bassa, hanno una speranza di vita che è di circa 2,6 anni inferiore a quella di coloro che appartengono al «quintile con il reddito più alto». 

E questa differenza nella speranza di vita cresce a seconda del comparto nel quale si è lavorato e delle mansioni svolte; e così sarebbe di cinque anni tra chi è nella fascia più bassa (16 anni di speranza di vita) e chi nella fascia di reddito ascrivibile al «Fondo dirigenti Inpdai”, (con 20,9 anni di aspettativa di vita dopo l’età pensionabile).

Questa la notizia, sulla quale credo sia opportuna qualche riflessione. 

In altri tempi forse questo studio dell’Inps sarebbe stato preso per uno dei tanti documenti buoni per impolverarsi in Parlamento , ma di questi tempi in cui il Governo è alla ricerca disperata di risorse per la Legge di Bilancio, le antenne degli italiani sono ben ritte, e figuriamoci quali possono essere state le reazioni dei pensionati che si sono sentiti dire di fatto “diamo pensioni più alte a chi ha minore aspettativa di vita”.

Che in termini brutali equivale a dire “quanto prima tirate le cuoia quanto più alti saranno gli assegni pensionistici”.

Un mio amico in quiescenza da 25 anni, con una pensione piuttosto buona, dopo aver letto la notizia mi ha scritto “L’Inps vuole morto me e quelli come me!”.

Difficile dargli torto a priori!

Perché se pubblichi in questo momento uno studio del genere, anche se non vuoi, il messaggio che passa è: “ricalcoleremo la tua pensione in base al tipo di lavoro che hai svolto  e alla tua Regione di residenza, perché le aspettative di vita sono diverse!”

Ed è inutile cercare di silenziare i campanelli di allarme, dicendo che si tratta solo di uno studio teorico,  perché i pensionati con pensione superiore al minimo hanno già toccato con mano da ben 11 anni che lo Stato ha cambiato le carte in tavola, e si è rimangiato gli impegni relativamente all’adeguamento degli assegni  pensionistici all’inflazione.

Ed i “patrioti” che ci governano adesso hanno confermato, come tutti quelli che li hanno preceduti,  questa “porcheria” già nella Finanziaria dell’anno scorso! 

Per la serie “I pensionati sono i bancomat” dei Governi!

Detto questo, pur credendo nella scientificità dagli studi statistici, non va mai dimenticato il noto componimento di Trilussa “La statistica” in cui il poeta parla di “polli” (se non la conoscete andate a leggerla, ne vale la pena).  

Ma qui si parla di persone, e nella realtà di ogni giorno ci sono anziani che muoiono prima delle soglie individuate dagli studi dell’Inps, ed altri che fortunatamente invece queste soglie le scavalcano anche ampiamente.

Questo per dire che in tema di aspettativa di vita, come spiegano i demografi, entrano in gioco decine di altre variabili, dal grado di istruzione alla genetica, che sono difficilmente ponderabili per fotografare la speranza di vita categoria per categoria, o addirittura per aree geografiche.

Oltre a tutto pur non volendo mettere in dubbio l’esattezza delle rilevazioni dell’Inps, mi chiedo:  perché ventilare il ricalcolo dei parametri  matematici utilizzati per determinare l’importo degli assegni pensionistici (al fine di mettere fine a quella che sarebbe un’ingiustizia), mentre nessuno vuole neppure sentire parlare di differenziare i salari in funzione del costo della vita, nettamente diversa fra le varie aree del Paese (come rilevato da anni e anni dall’Istat)?

Forse perché per la politica mettere le mani tasca ai pensionati è più facile rispetto ai lavoratori attivi?

Resta il fatto che, pur essendo diventata l’Italia un Paese in cui ormai tutto è possibile, voglio proprio vedere quanto sarebbe facile, ammesso che un Governo lo decida, applicare la differenziazione dei coefficienti di rivalutazione per Regione di residenza, tipo di lavoro svolto, e soprattutto per sesso (visto che le donne mediamente vivono più dei maschi). 

Solo per fare una domanda: una persona che ha sempre lavorato in una Regione, se una volta andata in pensione si trasferisce in un’altra Regione dove si vive mediamente di più o di meno cosa facciamo?  Gli ricalcoliamo una seconda volta l’assegno?

Per far quadrare i conti,  a Roma pensino a far pagare evasori fiscali e contributivi, invece di escogitare arzigogoli e furbate a danno dei pensionati!

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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