18 Gennaio 2023 - 9.44

PILLOLA DI ECONOMIA – Il “corridoio di Wakhan” e la Cina del ‘business il business’ con i talebani

di Umberto Baldo

Sicuramente nessun insegnante ve l’ha mai chiesto, e difficilmente lo chiederà anche ai vostri figli, perché la sua esistenza è sicuramente sconosciuta ai più. 

Allora la domanda ve la faccio io: sapete dove si trova il “corridoio del Wakhan”?

No?

Ebbene il Wakhan Corridor è una striscia di terreno lunga 270 chilometri ma larga meno di 13, che termina nel breve confine tra l’Afghanistan e la Cina, che misura meno di 70 chilometri. 

Fu creato dai negoziati russo-britannici nel 1895, quando un’apposita commissione individuò la valle, allora amministrata dall’emiro di Kabul, come possibile zona cuscinetto tra i due territori dell’impero.

Se lo guardate bene nella carta geografica, si tratta di una estroflessione innaturale del territorio afgano verso la Cina, ed è innaturale perché la sua esistenza risponde ad una logica politica.

Come sopra accennato fu creato alla fine del XIX secolo dall’Impero Britannico perché facesse da cuscinetto contro potenziali ambizioni russe verso l’India.

Per capire come si posiziona basta dire che a  nord del corridoio si trova la regione tagika del Gorno-Badakhshan,  a sud si trova il grande Kashmir, aspramente conteso tra India, Pakistan e Cina; e all’estremità orientale del corridoio, attraversando il passo innevato del Wakhjir, c’è lo Xinjiang cinese.

Un’area che fa parte dell’altopiano del Pamir, “il tetto del mondo”, in gran parte ad alta quota, oltre i quattromila metri. 

Sebbene in passato facesse già parte dell’antica Via della seta, si tratta di un tratto di terra aspro, tortuoso e inaccessibile da rendere ancora oggi impraticabile lo sviluppo di valide vie di collegamento.

Come avrete capito non è una località in cui andare per turismo, ammesso che l’Afghanistan di oggi sia un Paese da visitare in tranquillità; è uno dei luoghi più remoti del mondo, ma che come spesso accade per motivi geo-politici rischia di diventare il “centro del mondo”.

Vediamo perché.

Sicuramente saprete che l’Afghanistan dei Talebani è un Paese economicamente “disperato”, che si dibatte in una crisi devastante, che è ancora soggetto alle sanzioni americane, e che ha le riserve valutarie congelate.

E’ un Paese letteralmente alla fame, tanto che secondo Save The Children sono ben 6,6 milioni gli afgani che non hanno accesso al cibo, contro i 2,5 milioni del 2019.

Un Paese su cui aleggia il sospetto che ci sia un fiorente mercato degli “organi umani” per far fronte alla penuria di cibo, ed in cui i genitori drogherebbero i figli per non  fargli sentire i morsi della fame (d’altronde la droga a buon mercato da quelle parti non manca certamente).

Sappiamo anche che, nonostante questa catastrofe umanitaria, gli “Studenti coranici” si preoccupano principalmente di limitare ogni forma di libertà e di autonomia alle donne, privandole dei più elementari diritti, in ossequio alla loro rigida interpretazione dei principi della Sharia.

Tornando alla Cina, che come abbiamo detto confina con l’Afghanistan  per un breve tratto di una settantina di chilometri alla fine del corridoio del Wakhan, sappiamo bene che i cinesi non si fanno certo scrupoli relativamente al rispetto dei diritti umani e civili, come dimostrano le feroci repressioni, che si possono tranquillamente definire genocidio culturale, degli Uiguri dello Xinkiang, unitamente a tutte le altre minoranze musulmane presenti nella ragione. 

Per i “compagni di Pechino” la cosa più importante sono gli affari, e in ossequio al principio “business is business” stanno allacciando relazioni industriali e commerciali con i Talebani.

Per cui, pur non avendo ancora riconosciuto ufficialmente l’ “emirato islamico” dei Talebani, la Cina è uno dei pochissimi Paesi a mantenere l’ambasciata a Kabul, e nei giorni scorsi ha firmato il contratto più importante per i talebani sin dalla riconquista del paese nel 2021,  stipulato formalmente  fra il Governo estremista degli “studenti coranici”  e l’azienda cinese Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas (meglio conosciuta come Capeic).

Secondo il cosiddetto “ministro delle Miniere” di Kabul, Shahabuddin Delawar, l’accordo porterebbe 150 milioni di dollari all’anno in investimenti cinesi per l’estrazione di petrolio nell’area di quattromila chilometri attorno al bacino del fiume Amu Darya.

Ma il petrolio è sicuramente solo il primo obiettivo dei cinesi, cui sicuramente seguiranno altri investimenti, visto che il sottosuolo afgano nasconderebbe circa 60milioni di tonnellate di rame, oltre a  grandi quantità di litio e cobalto; e per soprammercato lapislazzuli, smeraldi, rubini, tormaline, e marmo.

Insomma un bel tesoretto, sui cui i “compagni di Pechino” sono determinati a mettere le mani.

Ma se ci pensate bene in questa fase in cui l’Occidente si rifiuta giustamente di collaborare con quel regime sanguinario e misogino, i cinesi in ossequio al principio del “pecunia non olet” diventano per i Talebani la principale opportunità di incassare soldi per far funzionare il loro emirato, oltre a tutto senza correre il rischio di vedere arrivare con i “mercanti” anche i militari cinesi, visto  che l’ambasciatore di Pechino in Afghanistan si è affrettato a precisare che “La Cina non si immischierà con gli affari interni del Paese”.

In questo i cinesi dimostrano a mio avviso di essere professori di “realpolitik”, perché hanno fatto tesoro del fatto che contro i montanari afgani nel tempo si sono rotti le corna tre imperi; quello britannico, l’Urss e poi gli Usa. 

Tutto bene quindi?

Si, a parte l’unica variabile, per definirla così, che in Afghanistan è attivo anche l’Isis, che ogni tanto fa saltare qualche moschea o fa un po’ di morti, e lo Stato Islamico qualche anno fa ha attaccato un hotel cinese a Kabul.

Concludendo, tornando al corridoio di Wakhan, terra di inverni rigidi e di altitudine impressionante, che si dipana fra montagne selvagge, non c’è dubbio che, dopo essere stato a lungo dimenticato, sta balzando al centro dei giochi politici fra la superpotenza cinese, il Pakistan dotato di armi atomiche, e il Tagikistan che sembra solo interessato a non avere problemi.

E state tranquilli che, essendo già in antichità il corridoio di Wakhan parte della Via della Seta, a Pechino stanno già pensando a come renderlo praticabile, e  sono pronto a scommettere che fra poco spunteranno progetti di strade o ferrovie vertiginose.

In questo i compagni cinesi sono insuperabili; hanno le idee chiare, hanno i soldi, hanno le tecnologie, e non hanno neanche  gli ambientalisti o i Comitati del “No” pronti a creare problemi.

E’ noto infatti che da loro gli oppositori vengono adeguatamente “rieducati”, magari con un piccone in mano a scavare in Tibet.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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