22 Settembre 2023 - 9.50

L’autunno della “legge Finanziaria” e le svolte che non arrivano mai

Umberto Baldo

L’autunno nel nostro Paese più che dall’ingiallimento delle foglie è caratterizzato da un atto politico-finanziario: la Legge di Bilancio, il cui iter inizia a settembre e finisce a dicembre, spesso sfiorando la fine dell’anno.

Si tratta della norma che, in parole semplici, regola le entrate e le uscite dello Stato per l’anno successivo, e per questo è sicuramente uno degli atti fondamentali di ogni Governo.

Non è un mero documento contabile, come si potrebbe arguire dal nome, bensì  un atto politico, con cui la maggioranza che governa il Paese tenta di realizzare il proprio programma.

Da sempre nella nostra Italia la manovra finanziaria è più che altro un esercizio di mediazione tra le varie istanze dei Partiti, dei Ministeri, dei Sindacati,  della stampa, e finanche dai partiti di opposizione.

Si cerca cioè di accontentare un po’ tutti, diluendo le risorse (sempre poche, e spesso si tratta di debiti)) in mille rivoli piuttosto che, come servirebbe, compiere quelle scelte nette di cui il Paese avrebbe disperatamente bisogno.

Non ci riuscì nemmeno SuperMario Draghi, che dovette mediare in un Parlamento dominato da una miriade di populisti di Cinquestelle e Lega, senza trascurare le richieste anche degli altri, come il Pd. 

E’ la logica delle bandierine, che ogni Partito vuole piantare pro domo sua, senza tenere nel minimo conto l’interesse generale.

Adesso, dopo anni, c’è il primo Governo con una maggioranza chiara eletta dai cittadini, che però risulta penalizzata in questa fase dal populismo di Matteo Salvini, pronto a sacrificare qualsiasi visione di lungo periodo pur di accaparrarsi qualche punto percentuale in più alle elezioni.

Intendiamoci, credo che in tutti i Paesi del mondo governati da una coalizione di Partiti la compilazione della legge finanziaria obblighi il premier ad una sorta di “mercato delle vacche”.

Ma in Italia questa mediazione assume un carattere patologico, visto che siamo diventati una società in cui si parla solo di diritti e mai di doveri, governata per di più da una classe politica autoreferenziale, attenta solo ai voti ed alle elezioni successive.

Confesso che nutrivo la segreta speranza che il primo Governo di destra della storia repubblicana mostrasse finalmente l’intenzione di dare una svolta, perché mi sembra chiaro che, date le dimensioni raggiunte dal debito pubblico, i margini di manovra si restringeranno sempre più anno dopo anno.

E’ evidente che questa mia rimarrà solo una pia illusione, e sono convinto che non è direttamente Giorgia Meloni il problema, ma l’incapacità collettiva di noi italiani di affrontare la realtà.

E cosa suggerisce questa realtà?

Che gli anni dei tassi di interesse a zero è finita, e non tornerà; come pure è finita la possibilità di derogare alle regole europee di rientro del debito pubblico sancite del Patto di Stabilità, dopo i quattro anni del Covid (2020-.2023) in cui sono saltati tutti i vincoli di spesa, grazie anche al supporto del Quantative Easing della Bce.

Noi poi ci abbiamo messo del nostro, devastando la finanza pubblica con quella vera e propria follia che è stato il Superbonus 110%, caricando sulle spalle dei nostri giovani oltre 100 miliardi, dilapidati in spese gonfiate da prezzi assurdi, per di più favorendo una fetta di popolazione che non ne aveva bisogno.

I mercati cominciano a mostrare qualche segnale di nervosismo, segnalato come al solito dal Financial Times che qualche giorno fa titolava “La luna di miele coi mercati è finita”.  

Se, come la City e Morgan Stanley prevedono, lo spread nei primi mesi del 2024 dovesse arrivare oltre i 210 punti, gli interessi da pagare per la gestione del debito supererebbero i 100 miliardi. 

In poche parole la stagione delle vacche grasse è finita, e non solo per noi, visto le difficoltà che sta affrontando l’economia tedesca, e il processo di ulteriore statalizzazione che sta interessando la Cina, il che allontanerà investimenti e crescita.

Di conseguenza sarà opportuno non confidare troppo su eventuali supporti dai nostri partner commerciali.

Viste le nubi che si addensano all’orizzonte, una classe politica semplicemente avveduta capirebbe che sarebbe necessario fare scelte chiare, anche dure e impopolari se serve.   E magari cominciare anche a fare quelle riforme sempre promesse, ma sempre rinviate perché quando si vanno a fare si vanno a toccare interessi specifici; e qui da noi nessun Partito vuole scontentare nessuno.  

Servirebbero coraggio politico ed anche lungimiranza, oltre che ovviamente una buona dose di coesione fra le forze di maggioranza, perché si tratterebbe di raccontare una buona volta la verità ad un Paese che si è ormai disabituato alle scelte, optando sempre  per il compromesso e per  il rinvio dei problemi.

Un Paese che ancora oggi preferisce l’oggi rispetto al futuro, e che di conseguenza non riesce più ad offrire prospettive ai propri giovani.

Vedete, il problema del debito è che diffonde nella gente l’illusione del benessere, almeno fin quando non arriva il momento di ripagarlo. 

Nel 2008 quel momento arrivò con il fallimento di Lehman Brothers, ed il prossimo arriverà quando si tratterà di ripagare il debito pubblico italiano con tassi di interesse sostanziosi e Pil stagnante.  

Ma a noi italiani andrebbe anche spiegato che i debiti hanno una imprescindibile  caratteristica; quella che prima o poi qualcuno li paga sempre.

Come ed in che modo dipende molto anche dagli equilibri politici internazionali, ma la storia insegna che spesso il problema è stato risolto con la guerra.

Dopo gli opportuni scongiuri, tornando alla Finanziaria, ed alle scelte che impone, giova ricordare che lo Stato italiano incassa circa 800 miliardi l’anno dalle entrate fiscali, e ne spende circa 880 (la differenza va ad accrescere il debito pubblico).

Sul lato delle entrate, che si chiamano in realtà tasse, spero sia chiaro che le possibilità di intervento sono pressoché inesistenti, anche perché mi auguro non si vogliano vessare ulteriormente quei 2,4 milioni di italiani che dichiarano oltre 50mila euro l’anno, e che sostengono circa il 40% del carico fiscale (sì il 40%). 

Lo so bene che Elly Schlein e certa gauche vedono questi italiani come “ricchi da far piangere”, ma probabilmente questo è uno dei motivi per cui questa sinistra non vince le elezioni. 

Come accennato,  stilare la finanziaria  vorrebbe dire fare delle scelte, e con questi chiari di luna il problema non è quello di individuare “a chi dare”, bensì affrontare l’annosa questione del “a chi togliere qualcosa”.

Ed il criterio seguito in questi ultimi decenni, quello di favorire le categorie che rappresentano voti, interessi lobbistici, settori protetti, abbiamo visto che ha portato il debito italiano (dato di luglio 2023) alla cifra mostruosa di 2.859 miliardi, in crescita di circa 30 miliardi al mese. 

Credetemi che margini di intervento per risparmiare risorse pubbliche ce ne sono ancora molti, anche se per volontà politica i “cirenei” incaricati tempo per tempo della “spending review” hanno sempre fatto la fine di San Sebastiano (l’ultimo è stato Cottarelli). 

Certo si tratta di scardinare i privilegi delle corporazioni, in un Paese dove, solo per fare qualche esempio, taxisti, balneari, cooperative, agricoltori, si sono rafforzati a scapito della collettività, e dove quasi metà dei cittadini vive sulle spalle dell’altra metà .

Ma sia chiaro, voglio ripeterlo, che il rimettere in riga il Paese non può essere scaricato sulle sole spalle del Governo di turno, senza cioè la presa di coscienza da parte di tutti i cittadini che, di questo passo, prima o poi bisognerà tagliare il welfare (che in italiano si traduce in pensioni, sanità, scuola).

Per tutti questi motivi io credo che questo Governo non solo avrebbe l’occasione, ma l’assoluta necessità di iniziare a dare una svolta, perché davvero questa può essere  l’ultima opportunità. 

E’ tempo di guardare al futuro, di rinunciare a qualcosa oggi per poterla avere anche domani, di far pagare a tutti il dovuto, di eliminare sprechi e spese inutili, di capire, tanto per essere chiaro, che il benessere e il tenore di vita dei nostri figli dipendono essenzialmente dai prossimi 3-5 anni.

Dopo potrebbe veramente essere troppo tardi.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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