24 Aprile 2023 - 11.13

Il sabato degli adolescenti anni ’80 a Vicenza

di Alessandro Cammarano

Piove, uscire di casa è l’ultimo dei pensieri, la prima colazione l’abbiamo fatta ed è troppo presto per pensare al pranzo. Che si fa?

La risposta giusta sarebbe “Beh, dai, procediamo al cambio degli armadi, ma questo aprile che sembra novembre non ispira per niente a procedere all’operazione, visto anche il freddo.

E allora? Un caffè, che ci sta sempre bene e magari contribuisce a levare di mezzo il torpore che ci attanaglia – pure con un biscottino, va – e poi, seduti in poltrona, si lascia vagare la mente per i meandri dei ricordi che, stavolta, chissà come mai, puntano decisi ai sabato pomeriggio dell’adolescenza, riportando le lancette dell’orologio a quegli anni Ottanta che tutto sommato un po’mitici sono stati.

Non c’erano i social, non esisteva neppure il cellulare, eppure i modi per darsi appuntamento e “trovarsi” esistevano comunque.

Il telefono di casa serviva per le comunicazioni “ufficiali”, anche perché quasi tutte le madri italiche – soprattutto quelle “de ‘na volta” – erano accorte ascoltatrici delle conversazioni della loro prole: dunque si stava attenti a non fornire particolari non troppo precisi.

Per le decisioni vere si sceglieva il telefono a gettone – a chi ha meno di vent’anni è bene ricordare che la città era punteggiata di cabine telefoniche e che davanti al Duomo, angolo via Vescovado, c’era il posto telefonico pubblico – che garantiva maggior privacy a meno di non essere scoperti da una zia zitella o dalla vicina pettegola.

Allora come adesso la gioventù cittadina era organizzata, più o meno a partire dalla prima superiore, in “compagnie” che – tipo i Jets e gli Sharks di “West Side Story” ma senza coltelli – presidiavano gli angoli del centro storico; il tutto in una rigida divisione in “caste”.

C’erano la compagna di Porta Castello, la più blasonata e che si trovava davanti al Caffè Remor e quella del Corso, con appuntamento al Canton de Gala, anche questa composta da giovani esponenti della “Vicenza bene”.

Poi venivano gli altri, quelli che non vestivano Best Company, Moncler e jeans Armani: quelli normali, insomma, ma egualmente impegnati nel rito delle “vasche” pomeridiane sue e giù per corso Palladio.

Ah: c’erano pure i dark e i metallari.

Torniamo però all’organizzazione del pomeriggio-sera della vigilia del “dì di festa”.

Solitamente i primi abboccamenti si prendevano durante la ricreazione del venerdì, per proseguire poi in maniera sempre vagamente carbonara, al telefono domestico, attenti a non farsi sgamare.

Tornati a casa, dopo un lauto pranzo adolescenziale, ci si preparava – ciascuno nelle forme e nei modi dettati dal proprio clan di appartenenza – per la kermesse del Sabato del Villaggio.

Momento confessione: chi scrive apparteneva alla compagnia del Corso, e dunque paninara, compresi profumo a scia e gel Tenax.

Dopo il ritrovo di rito, a seconda della stagione, si optava per una cioccolata calda che generalmente veniva sorbita al piano soppalcato – che nostalgia – del Bar Italia in Galleria del Pozzo Rosso e poi via a vascheggiare.

L’alternativa era sfondarsi di tartine da Renzo in Contrà Frasche del Gambero – che per intenderci è una delle prove dell’esistenza del paradiso –, ma questo soprattutto in primavera quando la temperatura permetteva la permanenza all’aperto, magari con chiusura “dolce” con un cono comprato al Bar Vicenza.

Particolarmente “trasgressivo” e maledettamente provvidenziale il passaggio in discoteca: perché, per chi non lo sapesse, in Contrà Riale c’era la microdiscoteca LP poi diventata Quattro Club, dove tra l’altro il mitico Borillo mosse i suoi primi passi da dj.

Quanti sabato pomeriggio trascorsi tra la dance di Dan Harrow e di Gazebo, passando per i Righeira e Baltimora ma senza tralasciare Tracey Spencer e il pop inglese; il tutto con bevande rigorosamente analcoliche e limonate sui divanetti complici.

Alla fine, un po’ storditi – dalla musica, mica da altro – e moltissimo affamati si decideva per una pizza e allora iniziavano le discussioni: “Andiamo ai Due Mori che è fighetto”, con replica “alla Vecchia Guardia” è più grande, senza ovviamente dimenticare la mitica pizzeria Vesuvio.

Era tutto in un fazzoletto di strade, un piccolo quadrilatero felice dal quale si faceva ritorno a casa non più tardi delle ventuno e trenta, sentendosi “grandi”.

Con l’auto o la Vespa e qualche anno in più sarebbero arrivate anche le serate all’”Elle et lui” e le cene sui colli, ma questa è un’altra storia.

Alessandro Cammarano

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