19 Marzo 2021 - 10.36

Il politically correct ci ucciderà

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di Alessandro Cammarano

C’erano una volta… le favole, e adesso? A dire il vero le favole ci sono ancora, ma intorno a loro si sono – soprattutto in questo ultimo, folle periodo – addensate nubi nere, figlie di una tendenza che, come spesso accade, era partita con le migliori intenzioni e invece si è incamminata per sentieri non proprio melodiosi.

Stiamo parlando del “politicamente corretto” – “politically correct” per gli anglofili – che oramai dilaga senza freni; oramai nulla si pubblica, si proietta o si esamina senza che sia preceduto da un “disclaimer” – che tradotto vorrebbe dire “dichiarazione di esclusione di responsabilità” – ovvero un legalissimo “pariamoci il culo”.

Il “politicamente corretto” è concetto in cui, nelle sue massime applicazioni, assurge a vette di inarrivabile idiozia. Qualcuno ricorda, nei titoli di coda di più di un film, la dicitura “nessun animale è stato maltrattato durante le riprese”? E ci mancherebbe altro che si fosse fatto del male a un cane o a un cavallo; peccato che magari il soggetto della pellicola era un serial killer che smembrava le sue vittime a colpi d’ascia e che il tutto fosse mostrato al pubblico con grande lusso di particolari e senza precisare che “il sangue è in realtà salsa di pomodoro”.

Tra le prime vittime c’è stato “Via col vento” che, siamo d’accordo, tratta tutti i personaggi neri secondo orridi stereotipi oggi inaccettabili, ma un po’ di sana contestualizzazione non guasterebbe: il film pluripremiato è del 1939! Martin Luther King, Rosa Parks e il loro messaggio di eguaglianza e integrazione era di là da venire.

Non parliamo poi della televisione, che si è riempita – soprattutto negli ultimissimi anni – di improbabili personaggi messi lì solo per non attirarsi gli strali dei sommi officianti del rito del “politically correct”. Ecco dunque che in un serie tv non può mancare un nero, un’asiatica e un gay, anche se la serie è ambientata nell’Inghilterra del nono secolo avanti Cristo, tra Angli, Sassoni e Vichinghi e non nella Londra di oggi.

Non sfuggono i romanzi, anch’essi sottoposti alla lente d’ingrandimento di una “correttezza” quasi sempre ipocrita e che farebbe arricciare il naso anche al più ligio dei calvinisti: manca poco all’accusa di irrisione del “diverso” nei confronti di “Pinocchio” o di classismo in “Orgoglio e pregiudizio”, per non parlare di Dickens o di Victor Hugo.

Non si salva l’opera: vietato, assolutamente, truccare di nero Aida o Otello.

L’ultima moda è il tiro al bersaglio nei confronti dei cartoni animati, primi fra tutti i vecchi classici Disney. Sigh.

C’è da dire che la storica casa di produzione ha deciso – probabilmente consigliata da una legione di avvocati di quelli che guadagnano seimila dollari al minuto – di autocensurarsi prima di incorrere nelle ire delle vestali della “correttezza” a tutti i costi, soprattutto ora che il canale streaming recentemente lanciato rimette in onda tutti i suoi capolavori animati.

E dunque ecco pronto il famigerato “disclaimer” che recita: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni o culture. Questi stereotipi erano sbagliati e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”; distillato di farisaica ipocrisia.

Finisce impallinato Dumbo, perche le tre cornacchie che gli insegnano a volare sarebbero uno stereotipo delle persone di colore: a me sembra che il terzetto di pennuti dia invece all’elefantino orecchiuto una bella iniezione di fiducia in sé stesso.

Non si salvano gli Aristogatti perché il felino jazzista Shun Gon suona il pianoforte con le bacchette e “irride la cultura cinese”… se volevano farla competa allora ci sarebbero pure il gatto italiano che, in originale, parla inglese “brucculino” e quello londinese con l’accento “posh”, ma evidentemente a disturbare i sonni dei nuovi censori è solo l’orientale.

In Peter Pan i Nativi Americani sono chiamati “pellirosse”; allora buttiamo al cesso un secolo di film western per lavarci la coscienza dal “cancel culture”? Buttiamo al macero i romanzi di Salgari, ma visto che ci siamo anche quelli di Joseph Conrad?

A questo punto via anche il granchio Sebastian che, nella Sirenetta, ha uno smaccato accento giamaicano e già che ci siamo sbarazziamoci pure di Mary Poppins e dei suoi discutibili metodi educativi.

Nel frattempo mi riguardo la Spada nella roccia, prima che si cominci a stigmatizzare il body shaming nei confronti di Maga Magò.

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