4 Luglio 2023 - 8.39

Guerra in Ucraina e propaganda: un anno di colpevole disinformazione

Sapete quali sono le cose fra le più inquietanti di questa fase storica?

Mi sembra di vedervi tutti con le mani alzate ansiosi di comunicarci quello che sta disturbando i vostri sonni, o comunque vi preoccupa.

Indubbiamente ci sarebbe da perdersi nello stilare un elenco (dalle migrazioni, al caro vita, al cambiamento climatico, solo per fare alcuni esempi), ma per quanto mi riguarda, da persona che ha sempre considerato la “ragione” come il faro che dovrebbe ispirare l’agire umano, fra le cose che mi disturbano c’è il mistero che circonda alcuni eventi che fanno da contorno (si fa per dire eh!) al conflitto che oppone la Russia all’Ucraina, anche se a questo punto sarebbe meglio dire alle democrazie occidentali.

Che tutte le guerre presentino dei lati oscuri, degli episodi inconfessabili, delle ombre che gli storici cercano di dipanare quasi sempre dopo molti anni, non sempre riuscendoci, lo sappiamo da sempre. 

E questo conflitto, pardon “operazione speciale” seconda la narrazione cara a Vladimir Putin, non fa eccezione.

Si sa che le guerre si combattono dalla notte dei tempi senza esclusioni di colpi, che la cosiddetta “propaganda” ha sempre giocato un ruolo fondamentale in tutte le epoche, e la prima vittima della propaganda è la “verità”.

La propaganda di guerra, soprattutto oggi in cui la guerra è ibrida, distorce i fatti, li nasconde o li sopprime, o li sostituisce con “immagini” false, mutilando o rovesciando il senso dello stesso linguaggio, abolendo ogni criterio empirico di distinzione tra vero e falso. 

Si tratta della “defattualizzazione” della realtà empirica: un fatto, poiché contingente, poteva non accadere, quindi per il propagandista di guerra non è accaduto, o è accaduto diversamente da come accertato o accertabile. 

Ne consegue che tutto può diventare invenzione, menzogna o mistificazione.

Ma per calarci nella realtà, il primo “episodio oscuro” cui mi riferisco è il sabotaggio del 26 settembre 2022, quando furono registrate tre forti esplosioni al largo dell’isola di Bornholm (zona economica esclusiva di Svezia e Danimarca), dove passano i giganteschi tubi del gasdotto Nord Stream e del suo raddoppio, il Nord Stream 2.

Nessuno ha mai rivendicato l’attentato, e Russia e Ucraina si stanno ancora rimpallando la responsabilità.

Ovviamente, come succede in questi casi, tutti i soggetti in qualche modo coinvolti hanno aperto inchieste, che hanno portato più che altro ad illazioni.

Così secondo l’intelligence e gli investigatori tedeschi le esplosioni al Nord Stream sarebbero opera di un commando ucraino, conclusione sdegnosamente rigettata da Kiev. 

La Nato e i partner occidentali dell’Ucraina hanno invece  più volte espresso il sospetto che sia da ritenersi responsabile la Russia; mentre Mosca a sua volta accusa l’Occidente, e ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ Onu una indagine internazionale. 

Ovviamente si sono messi in mezzo anche cronisti ed analisti, e tra le varie ipotesi formulate ce n’è stata una del giornalista Usa Seymour Hersh, che ha puntato il dito sugli Stati Uniti facendo leva su una frase pronunciata dal Presidente Joe Biden poco prima del conflitto: Se la Russia invade, se cioè carri armati e truppe attraversano il confine con l’Ucraina , allora non ci sarà più un Nord Stream 2. Porremo fine a tutto ciò”.

Di solito di fronte ad un episodio del genere buona regola per capirci qualcosa è quella di porsi la domanda “Cui prodest?” (A chi giova?); ma in questo caso la logica appunto del cui prodest è di scarso aiuto: americani, russi, polacchi e ucraini avevano tutti qualcosa da guadagnare dal sabotaggio del gasdotto, e poiché tutti hanno interesse a non essere indicati come mandanti o esecutori,  forse non sapremo chi ha deciso e portato a termine quell’azione. 

Il secondo episodio è quello del crollo della diga della centrale idroelettrica di Kakhovskaya, avvenuta nella notte fra il 5 ed il 6 giugno scorsi, che ha determinato una vasta inondazione nei territori più a valle, investiti da un autentico tsunami che ha costretto all’evacuazione migliaia di persone e allagato oltre 20mila ettari di campi coltivati e coltivabili a ridosso del fiume Dnepr.   Il tutto con il consueto corollario di morti, villaggi inondati, e migliaia di profughi. 

Anche in questa occasione abbiamo assistito ad un duro braccio di ferro al Palazzo di Vetro dell’Onu tra Kiev e Mosca, che alla riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza si sono reciprocamente accusate di terrorismo; con il presidente Zelensky che denunciava l’ennesimo attentato dei russi, mentre il Cremlino parlava di sabotaggio ucraino come reazione al fallimento della controffensiva.

A meno che non si voglia accettare  una terza ipotesi, la più probabile secondo gli esperti, che però si ha quasi timore di sostenere,  cioè il crollo “involontario” (l’assenza di una detonazione mirata, unitamente ai danni causati dagli scontri precedenti,  insieme all’impossibilità di riparare la struttura e al forte aumento del livello dell’acqua nel bacino, avrebbero portato al crollo definitivo della notte del 5 giugno), anche in questo caso la propaganda dei due contendenti rende difficile individuare eventuali responsabili di questo disastro.

La terza situazione per fortuna si riferisce, al momento, solo ad un rischio potenziale.

Mi riferisco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia (ZNPP), il maggiore complesso elettronucleare d’Europa, ed il terzo al mondo.

Il sito della ZNPP è stato occupato dai russi il 4 marzo 2022, nella prima fase dell’invasione.    Dal successivo 12 marzo l’azienda statale russa per l’energia atomica Rosatom ne ha preso il pieno controllo, mantenendo il personale ucraino in condizione subordinata. Dal settembre 2022 la centrale non è operativa: cinque reattori sono in modalità di arresto freddo, e un’unità rimane a temperatura e pressione elevate per produrre il vapore necessario per mantenere il sito in sicurezza.

Il problema è che l’oblast di Zaporizhzhiaè uno dei principali terreni di scontro dei due eserciti: le forze russe sono riuscite a occupare solo circa i 2/3 meridionali della regione, che è stata tuttavia formalmente incorporata nella Federazione russa il 30 settembre 2022, e quindi si trovano nella necessità di completarne l’acquisizione; di contro, uno degli obiettivi della contro-offensiva ucraina è la liberazione dell’intero oblast fino al mar d’Azov, in modo da interrompere il collegamento via terra della Russia con la Crimea. 

Data l’alta rilevanza strategica del sito, da tempo è in atto il consueto gioco delle parti in guerra, a colpi di accuse e contro accuse.

E la cosa mi preoccupa perché non dimentico che relativamente  a Kakhovskaya,   per mesi l’amministrazione ucraina e quella russa si erano rimpallate accuse su chi volesse colpire la diga, e poi quando è successo quelle dichiarazioni sono state riutilizzate da entrambe le parti per dimostrare le veridicità di quegli allarmi. 

Relativamente alla centrale di Zaporizhzhia, Kiev si professa certa del fatto che la struttura sia stata minata, anche nella zona ad alto rischio dei reattori, e accusa i nemici di utilizzare il sito come postazione di lancio per l’artiglieria. 

Mosca  dal canto suo ha ripetutamente respinto queste accuse, puntando il dito sulla controparte, rea a suo dire di lanciare ordigni contro l’impianto.

Capite bene che anche in questo caso siamo di fronte a bieca propaganda, che sembra non tenere nel dovuto conto che si tratta di un allarme spaventoso, che evoca un disastro nucleare.

Basta questa dichiarazione di Dmitry Medvedev: “Noterò una cosa che i politici non amano ammettere: un’apocalisse nucleare non è solo possibile, ma anche abbastanza probabile…” per realizzare a quali livelli siamo arrivati.

Francamente, pur avendo purtroppo toccato con mano che in guerra si compiono sia atti irrazionali che nefandezze, da uomo della strada non posso non chiedermi come Russia e Ucraina possano accusarsi vicendevolmente di avere in animo di provocare un disastro nucleare, i cui esiti  anche dal punto di vista militare sarebbero alquanto aleatori, in quanto il disastro di Cernobyl ci ha dimostrato che   le nubi radioattive si spostano a seconda delle condizioni atmosferiche, dei venti, e non si può calcolare in anticipo dove  e chi colpiranno. 

C’è solo da augurarsi che alla fine prevalga il buon senso, ma sia la vicenda del Nord Stream che quella della diga  di Kakhovskaya non inducono certo all’ottimismo.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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