Giorgia Meloni e la politica come “cosa di famiglia”

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Umberto Baldo
Dopo quasi tre anni di governo targato centrodestra, qualche bilancio si può e si deve fare, non solo sui risultati concreti, o meglio, sulle promesse disattese: riforme annunciate e mai partite, accise ancora lì, retorica muscolare e poca ciccia.
Ma a mio avviso il vero nodo, oggi, non è tanto ciò che il Governo fa o non fa, quanto il “come” lo fa. E soprattutto con chi.
Qui Giorgia Meloni gioca una partita tutta sua.
E nonostante l’idiosincrasia di certa sinistra che la dipinge ancora come una fascista in doppiopetto, è innegabile che sul piano internazionale sia riuscita a imporsi come interlocutrice credibile.
Diciamocelo: dopo anni di “macchiette” al potere, non è un traguardo da poco.
Ma proprio questo successo rende ancora più evidente una contraddizione profonda, che riguarda la struttura stessa del potere attorno alla Premier: l’assenza di una classe dirigente all’altezza del compito.
Meloni sembra aver scelto, con coerenza e determinazione, di circondarsi quasi esclusivamente di fedelissimi. Collaboratori spesso legati da anni di militanza comune, da una lunga consuetudine politica, a volte anche da vincoli personali e familiari.
Ma come allenatore di una squadra, la Presidente del Consiglio non può fare tutto da sola.
E se da un lato la Lega ha saputo, almeno nel Nord, coltivare una classe dirigente quantomeno competente (Zaia e Fedriga parlano per tutti), Giorgia Meloni sembra ancora costretta a giocare da numero 10, allenatrice, e massaggiatrice insieme.
Solo che la politica non è uno sport individuale, e nemmeno i fuoriclasse riescono a vincere il campionato da soli.
La domanda è: com’è possibile che, dopo tre anni di governo ed un consenso stabile attorno al 30%, non sia ancora riuscita a far emergere una classe dirigente nuova, capace, credibile?
La risposta è che forse non la vuole.
L’impressione è che Meloni continui a ragionare secondo un codice tribale, familistico, impermeabile.
A guidare le sue scelte non è il merito, ma la fedeltà.
E non quella generica al progetto politico, ma quella personale, radicata nelle vecchie sezioni del MSI, nelle campagne militanti di vent’anni fa, nei vincoli ideologici.
E così capita che Ministeri chiave finiscano in mano all’ex cognato, che si mette a pontificare sul rapporto fra vino e longevità come se fosse all’osteria. E pazienza se tutto il mondo scientifico dice il contrario.
E allora ecco spiegato il perché di tante cadute di stile (chiamiamole così): perché la selezione non è mai stata fatta sulla base della competenza o dell’apertura, ma sul principio del “noi contro il resto del mondo”.
Un “cerchio magico” in versione tricolore, impermeabile a chiunque non abbia un pedigree “certificato”.
Chi non è dei “nostri” resta fuori.
Intellettuali? No, grazie. Imprenditori? Solo se portano la tessera. Moderati? Manco a parlarne. Meglio restare chiusi nel guscio, mentre nel Paese c’è chi scalpita anche per dare una mano. Ma è inutile bussare: la porta è chiusa.
Ma fuori da quel cerchio c’è un Paese intero.
E non parlo di sinistra, Fratoianni, Schlein o compagnia bella.
Parlo di tutto quel mondo moderato, liberale, produttivo, che magari non chiede molto, se non di essere ascoltato.
Invece, niente. Nessun coinvolgimento, nessuna apertura.
Anzi, a ben vedere, il Palazzo si è ristretto: sempre meno decisori, sempre più solitudine al vertice.
E così il governo Meloni, anziché crescere, si è rimpicciolito.
È rimasto, per paradosso, l’emanazione diretta di quel Fratelli d’Italia del 4%, che era minoranza ideologica prima ancora che elettorale.
E allora ecco il paradosso: mentre la Premier si gode il suo momento di gloria, il suo partito resta quello di sempre.
Un Fratelli d’Italia in formato bonsai, dove l’unico talento davvero riconosciuto è la fedeltà, oserei dire, usando un’espressione spagnola, la “limpieza de sangre” (e questo è probabilmente il motivo della permanenza della “fiamma tricolore” nel simbolo).
E mentre aaa Naaazzzziiiiooone avrebbe bisogno di competenze, di visioni, di energia nuova, lei, come accennato, sembra avere un’unica ossessione: la purezza della stirpe politica.
Non si passa se non si è militato nella Giovane Italia, se non si è stati almeno una volta a Predappio in gita, o se non si è mai chiamata Giorgia “la Capa” con gli occhi lucidi.
Il risultato? Nessuno che sappia gestire le Regioni, nessuno che possa ambire a un ministero senza essere “di famiglia”.
Tutto questo, come accennato, ha un effetto concreto e immediato: la difficoltà a trovare candidati credibili per le prossime regionali.
In Veneto, dove il centrodestra vince anche con un manichino come capolista, non sanno chi scartare, la sfida è l’imbarazzo della scelta, e ve ne ho riferito ieri.
Ma altrove?
In Puglia, dove si voterà in autunno, la sinistra parte in vantaggio con Antonio Decaro, mattatore alle europee. A destra? Prima Gemmato, poi il ritiro. Alla fine, forse, toccherà a Mauro D’Attis, scelta di ripiego (eufemismo).
In Campania, la situazione è analoga. Vincenzo De Luca ha ancora la forza per dettare legge, e i nomi nel centrodestra si assottigliano, tra processi e ritiri.
Si sussurra di Edmondo Cirielli, o addirittura dell’ex ministro Sangiuliano, probabilmente già stanco di fare il corrispondente Rai da Parigi.
Non esattamente candidati del rinnovamento.
E intanto anche chi è già in carica, come Francesco Acquaroli nelle Marche, traballa: frutto pure lui di una scelta tutta interna al clan.
Alla fine, il punto è semplice: se Meloni vuole davvero fare il salto da capo della destra a leader nazionale, deve liberarsi da quella logica da Capoclan che oggi la incatena.
Perché governare con i fedelissimi può bastare per vincere qualche elezione. Ma per lasciare un segno serve ben altro: servono idee, visioni e, soprattutto, persone capaci di incarnarle.
Insomma: Giorgia Meloni oggi è Premier, ma guida un partito rimasto “culturalmente” al 4%.
Alla fine la morale è una: se vuole governare l’Italia, una statista deve scegliere: o il cognato o il Paese.
Per ora Giorgia ha scelto il cognato. Ma non è detto che l’Italia, a lungo andare, scelga lei.
Se vuole evitare di diventare una regina senza regno, deve smetterla con il familismo, e aprire le finestre.
O finirà per governare da sola, applaudita dai cognati e dai portaborse.
Umberto Baldo













