16 Novembre 2019 - 10.06

Venezia ed il Mose: storia di una mangiatoia italiana in salsa veneta

In questi giorni in cui per l’ennesima volta ci tocca assistere ammutoliti ed impotenti alla “profanazione” di Venezia da parte delle acque dell’Adriatico, siamo anche obbligati a subire le polemiche che sempre in Italia accompagnano i disastri ambientali.
Perché, e lo sappiamo bene, nel nostro benedetto Paese le cose belle hanno mille padri, quelle brutte restano per lo più orfane.
E quindi pagine e pagine su tutti i media piene di “io l’avevo detto che il Mose era inutile”, di “se ci fosse stato il Mose”, e via così.
Da non tralasciare la rituale processione, si potrebbe anche dire “passerella”, dei “potenti” di turno in piazza San Marco e dintorni, in stivaloni a pontificare sull’imprevedibilità dell’evento, ma pronti a rassicurare che “da oggi in poi le cose cambieranno” e che “le risorse per mettere in sicurezza la Serenissima si troveranno in un battibaleno”.
Il problema è che, di solito, alle parole non seguono quasi mai i fatti, e passata l’emergenza il problema viene non dico dimenticato, ma sicuramente messo in fila con altri che effettivamente gravano sul Paese.
A questo riguardo credo che la storia del Mose, che nulla ha a che fare con il patriarca biblico Mosè, ma che sta per “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” sia emblematica, uno specchio di cos’è l’Italia, e di quali siano veramente i problemi di un popolo avviato verso una decrescita inarrestabile.
In breve questo progetto ha radici lontanissime, che risalgono al 1966, quando l’acqua alta raggiunse la bella altezza di 194 centimetri, devastando la città.   Ponendo il problema della necessità di agire per salvaguardare Venezia ed il suo patrimonio artistico unico al mondo.
E’ inutile ripercorrere le tappe di un manufatto che, a parte i costi esorbitanti, ha messo a nudo il sistema di corruzione che per anni ha utilizzato gli appalti per la costruzione di quest’opera per fini criminali, personali e politici.
Questa storia l’ha già scritta la Magistratura, fra arresti eccellenti e condanne, ponendo fine a carriere fulgide, ma anche, inevitabilmente, rallentando i lavori di ultimazione, fermi da ben 5 anni.
E non va sottaciuto che in questa vicenda non possiamo nasconderci dietro i soliti stereotipi di  mafie e camorre importate. 
No, quella del Mose è stata una storia criminale totalmente veneta, perché veneti ne sono stati i primattori!
Al momento i costruttori hanno dichiarato che, in termini percentuali l’opera è stata realizzata al 94%, e che la consegna potrebbe avvenire in un paio d’anni.
Tutto questo, ovviamente, se tutte le autorità si muovono all’unisono verso l’obiettivo di ultimare il manufatto, allentando la morsa di una burocrazia invasiva e soffocante.
Ma francamente, credo sia lecito dubitarne!
Quindi, come novelli San Tommaso, ci crederemo solo quando vedremo le paratoie alzarsi, impedendo alle onde di marea di raggiungere la città.
Vedete, i ritardi del Mose si inseriscono nel generale problema dell’edificazione delle infrastrutture nel nostro Paese.
Diversamente da quanto avviene negli altri Paesi, da noi per edificare qualcosa ci vogliono tempi biblici.
Ma perché ci vuole tutto questo tempo?
L’iter per un’opera pubblica di una certa entità parte dal Ministero delle Infrastrutture, che deve programmare i lavori e chiedere i soldi al Ministero dell’Economia.  Tocca poi al Cipe fare la verifica costi/benefici, e questa prima fase può durare anni e anni.
Se tutto procede bene, si apre la fase  delle gare di appalto, e qui la regola è che chi perde faccia ricorso, con conseguente ulteriore spreco di tempo, viste le lungaggini della Magistratura.
C’è poi da considerare l’atteggiamento della popolazione, che spesso vede i contrari organizzarsi in “comitati del NO”, cui la politica risponde di solito con varianti in corso d’opera, che allungano ulteriormente il brodo.
E’ chiaro che questo iter infinito favorisce prassi criminogene, che senza peli sulla lingua in italiano si chiamano “mazzette”, che ormai sono la regola in qualsiasi intervento pubblico.
Oltre a tutto questo iter è accompagnato di solito da dispute “ideologiche”, che contrappongono politici, studiosi, comitati, ognuno portatore di una “verità rivelata” su come risolvere il problema in modo diverso da quello deciso dai Ministeri.
La soluzione che ne esce, pur fra polemiche annose, viene solitamente presentata come l’unica praticabile, con il secco rifiuto di guardare come altri Paesi abbiamo affrontato problemi analoghi.
Così è stato anche per il Mose, che ha visto i suoi propugnatori rigettare e talvolta ridicolizzare coloro che avevano idee e soluzioni diverse; nel caso in questione ad esempio Massimo Cacciari, da sempre contrario a quest’opera.
Ma possibile che solo noi italiani avessimo individuato la soluzione ideale per bloccare le maree e le conseguenti acque alte in laguna?
Va bene che abbiamo dato i natali a Leonardo da Vinci, ma non è detto che attualmente ce ne siano molti altri  di Leonardo in giro per l’Italia.
Magari guardare con il giusto grado di umiltà ad altre esperienze analoghe, avrebbe almeno fatto riflettere.
Anche perché altrove il problema l’hanno risolto da anni, mentre noi dopo mezzo secolo siamo ancora all’acqua dentro la basilica di San Marco.
E tanto per fare qualche esempio guardiamo come nel mondo hanno affrontato il problema delle infiltrazioni del mare nella terraferma.
Cominciamo ovviamente dall’Olanda, che ha il 40% del proprio territorio sotto il livello del mare, e non del mare Adriatico, bensì dell’Oceano Atlantico, che è tutta un’altra cosa.
Qui fin dal lontano 1953, dopo la grande inondazione della Zelanda, hanno realizzato il mega progetto Piano Delta, che costituisce il più grande sistema al mondo di protezione dal mare della zona densamente popolata alle foci del Reno, della Mosa e della Schelda.
Senza i 18 mila chilometri (si avete letto bene, 18 mila) di dighe, dune e sbarramenti, l’Olanda sarebbe solo un’immensa palude, e non la quinta economia dell’Eurozona.
Visitare il complesso delle dighe olandesi è un’esperienza che consiglio a tutti: perché dimostra che si possono contemperare le esigenze di salvaguardia del territorio con quelle di pescatori, ostricoltori e agricoltori, che hanno preteso dighe semi aperte per evitare la scomparsa della flora e della fauna marina.
Considerando che il Veneto è un territorio di bonifica, con parti sotto il livello del mare come il Polesine, forse guardare con attenzione all’Olanda sarebbe stato opportuno.
Anche se, bisogna pur ammetterlo, per Venezia la soluzione a dighe fisse sarebbe stata sicuramente efficace, ma avrebbe avuto un impatto visivo decisamente superiore a quello del Mose.  Sempre che il Mose funzioni, ma questo ce lo dirà il futuro.
In Russia nel 2011 a San Pietroburgo hanno inaugurato una diga colossale lunga 25 chilometri per proteggere la città dalle devastanti piene della Neva, isolandola dal Golfo di Finlandia.
In Inghilterra per finirla con gli allagamenti dell’entroterra di Londra, hanno costruito una barriera sul Tamigi,  la Thames Barrier, alta come un edificio di sei piani.  Anche qui lo scopo è quello di prevenire i danni conseguenti ad eccezionali ondate di alta marea.
E per finire  New Orleans, sommersa all’’80% nell’agosto 2005 dall’uragano Katrina.  In difesa della città è stato costruito un nuovo anello di dighe, barriere, e chiuse lungo 560 chilometri.  Avete capito bene, 560 chilometri di dighe in soli 14 anni.
Intendiamoci, non tutte le soluzioni possono essere adatte ad una realtà come Venezia, che costituisce un unicum, sia dal punto di vista ecologico, che storico ed artistico.
Ma è anche vero che all’epoca della Serenissima la laguna era protetta e continuamente pulita e dragata, ed il solo piantare un palo senza essere autorizzati esponeva a rischi penali.
Le scelte scellerate di attivare la chimica in laguna le stiamo pagando ancora oggi.
E non voglio neanche pensare cosa sarebbe potuto succedere se il giorno dell’ “aqua granda” fosse transitato nel bacino di San Marco uno dei giganti del mare che quotidianamente sfilano davanti a Palazzo Ducale.
Il divieto di transito per le grandi navi sarebbe già un segnale che la classe politica stavolta ha capito, e vuole risolvere qualche problema di Venezia una volta per tutte. Ma se ne parla da anni senza alcun costrutto.
In conclusione, ho sempre avuto seri dubbi sul fatto che il Mose sia la soluzione giusta per il problema delle super maree, ma mi rendo conto che, a questo punto di realizzazione dell’opera, sarebbe criminale non portarla a termine.
Anche per rispetto ai soldi degli italiani, visto che fino ad ora il manufatto incompiuto è costato il triplo dell’Autostrada del Sole.
Se poi la vicenda del Mose fosse l’inizio di un cambio di marcia, allineando i tempi di realizzazione, e perché no anche i costi, delle grandi opere italiche a quelli degli altri Paesi europei, sarebbe veramente una bella notizia per tutti.
Con un corollario; che fare prevenzione costa sempre meno, in danni e distruzione di vite umane, che intervenire a disastri avvenuti.
Forse sarebbe il momento di dare vita ad una sorta di Piano Marshall per mettere in sicurezza la nostra penisola. Sicuramente può portare qualche voto in meno rispetto a scelte di distribuzione di risorse a pioggia, ma alla lunga costituirebbe un investimento per la nostra economia e per il futuro dei nostri giovani.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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