14 Febbraio 2019 - 13.30

EDITORIALE – Autonomia o utopia?

“Soluzioni annacquate non le sottoscriviamo”.  Nulla meglio di queste parole del Presidente del Veneto Luca Zaia mostrano il “tira e molla” in corso nei palazzi romani sul tema della maggiore autonomia richiesta dalle Regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
I meno “scafati” di noi, vero “Siora Maria” e “Sior Bepi”, si erano illusi che il 15 febbraio fosse finalmente il “D-day”, il giorno in cui, dopo vent’anni di promesse, l’autonomia del Veneto avrebbe finalmente visto la luce.
Invece, come succede ormai per tutti i provvedimenti che vedono la contrapposizione fra Lega e 5Stelle , si è deciso per un ulteriore rinvio, senza fissare una nuova data, il che vuol dire che verosimilmente la riforma resterà bloccata fino a dopo le elezioni europee, a questo punto vero “spartiacque” dell’attuale fase politica italiana.
Ma perché questo stop?
Ricordo alla “Siora Maria” ed al “Sior Bepi” che giusto un anno fa, il 28 febbraio 2018, Lombardia, Emilia e Veneto hanno firmato un accordo col Governo allora guidato da Paolo Gentiloni, in cui hanno richiesto risorse aggiuntive per occuparsi in modo esclusivo di una serie di materie, dall’istruzione alla sanità, dalla tutela dell’ambiente all’assistenza sociale. Anzi il Veneto, forte del referendum popolare che ha plebiscitariamente approvato la richiesta di maggiore autonomia, ha a suo tempo “alzato la posta al massimo”, chiedendo il trasferimento di tutte le 23 materie previste dalla Costituzione italiana.
Ma, si staranno giustamente chiedendo i nostri “Siori”, se un anno fa si era raggiunto un accordo di massima con un Governo guidato dal Partito Democratico, da sempre fiero avversario dell’estensione dell’autonomia regionale, perché non si riesce a chiudere con un Esecutivo che vede la Lega nella “stanza dei bottoni”?
Due sono gli elementi da considerare, a mio avviso, per comprendere meglio la situazione.
Il primo sta nell’aperta “ostilità” della classe dirigente del Sud, in cui è in atto una sorta di “chiamata alle armi” da parte di politici e associazioni contro il progetto, bollato come foriero di una “spaccatura dell’unità nazionale”.   Ci sono appelli a tutti i parlamentari del sud, indipendentemente dall’appartenenza politica, per fare un fronte comune contro quello che viene definito l’ “abbandono del sud da parte del nord”, come la “secessione dei ricchi a danno dei poveri”.   Toni volutamente melodrammatici, che però mostrano chiaramente l’avversione diffusa nel meridione contro quella che viene spacciata come la “svendita del sud”.
A queste spinte “territoriali, si sono poi aggiunte altre forze sociali, come ad esempio i sindacati della sanità e della scuola, che mal digeriscono la prospettiva di dover abbandonare le “riunioni oceaniche” al Ministero del Lavoro, per confrontarsi a livello regionale. E’ comprensibile che nel Movimento 5Stelle, fino ad ora vero e proprio sindacato territoriale del sud, siano preoccupati del clima, ed è ormai palese che i loro parlamentari e ministri stiano facendo un po’ di “melina”, ponendo  ostacoli per ritardare, speriamo non affossare, l’iter del provvedimento.
Ma come mai questa contrarietà all’apertura autonomista?
Da un lato il fatto che il Movimento 5Stelle è un mix di visione keynesiana e di “centralismo statale”, dall’altro, tanto per capirci cara “Siora Maria”, al di là della retorica autonomista, che è stata da sempre uno dei cavalli di battaglia della Lega, gratta gratta arriviamo al vero problema, che come sempre ha a che fare con gli “schei”. Perché lo capisce anche un bambino che quando si parla di maggiore autonomia, quindi di più materie trasferite dallo Stato alle Regioni interessate, è evidente che per svolgere i nuovi compiti serviranno maggiori risorse finanziarie.
Da quanto è trapelato, sembra di capire che ciò che lo Stato oggi spende per le 23 materie richieste, dovrebbe essere trasferito al Veneto a saldo zero (sic!), in attesa dei “costi standard”, che dovrebbero però andare a regime tra 5 anni.  In un secondo tempo dovrebbe poi scattare la compartecipazione del gettito fiscale, che affluirebbe direttamente nella casse della Regione senza transitare per il Ministero dell’Economia. Ed è proprio la questione del gettito fiscale, che le Regioni con più autonomia dovrebbero in prospettiva poter in parte trattenere, ad eccitare gli animi dei contrari, che sostengono che lo Stato sarebbe costretto a diminuire le risorse da redistribuire alle altre Regioni.
In teoria non si tratta di pochi spiccioli: bensì di un bel po’ di miliardi che vengono raccolti attraverso le imposte in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, e consegnati allo Stato, che ne trasferisce poi una buona parte alle regioni meridionali. E qui si inserisce l’ulteriore fattore, vera a propria “cartina di tornasole” per capire di quale autonomia stiamo parlando.  E si tratta della questione dei “costi standard”.
Cosa sono?   Caro “sior Bepi”, lei avrà sentito parlare delle annose polemiche del costo di una siringa, che costava 50 centesimi in Veneto ed 1 euro e più in Sicilia.
Il costo standard di un prodotto, così come definito nell’accordo del febbraio 2018, non è altro che la media fra il costo pagato dalla Regione più efficiente, rispetto quello pagato dalle Regioni meno efficienti. Al costo standard si contrappone il cosiddetto “costo storico”, che corrisponde invece a quello che una Regione ha pagato per un bene od un servizio negli anni precedenti.
E’ evidente che la scelta dei “costi standard” premierebbe le regioni più “virtuose”. Tornando all’esempio delle siringhe, se la Regione Veneto riuscisse a risparmiare sulle siringhe, avrebbe più soldi da spendere per comprare nuovi macchinari per gli Ospedali.  Questo però obbligherebbe le Regioni meno virtuose ad allinearsi ai costi standard, ristrutturando ed eliminando gli sprechi; proprio quello che i fautori del “costo storico” sembrano non volere. Perché, lo ripeto, con i costi storici queste Regioni potrebbero continuare a spendere quel che hanno speso finora, indipendentemente dall’efficienza.
Da qui la loro aspra polemica contro l’ampliamento dell’autonomia regionale.
Risulta quindi chiara la contrapposizione fra il nord che vuole l’autonomia  perché è stanco dei tagli lineari che colpiscono anche le Regioni che non sprecano risorse, e per le tasse che non tornano sul territorio, ed il Centro Sud che la osteggia perché preoccupato di perdere risorse.  E questo spiega anche perché solo ora si riaccenda la polemica sui “costi standard”, che dal 2009 dovrebbero già essere applicati per legge, e che nessuno si è mai invece preoccupato di far rispettare. Accennavo prima ad un secondo elemento da considerare per comprendere a che punto siamo.
Ed è quello, piaccia o non piaccia, di cosa la Lega voglia veramente.  Fin che si parlava di Lega Nord, con l’aggiunta “per l’indipendenza della Padania”, la domanda non avrebbe avuto senso.
Ma ora dal simbolo della Lega di Salvini sono spariti entrambi i riferimenti, e ciò perché il partito oggi viaggia a doppia cifra anche nelle Regioni del Sud (regionali Abruzzo di domenica al 27,5%), e tende ad imporsi definitivamente come forza politica nazionale.    Che per di più, in questa fase, è alleata con il Movimento 5 Stelle, chiaramente di matrice meridionalista, e con forti accenti “statalistici”. E’ comprensibile che Salvini non sia entusiasta di presentarsi nelle piazze del sud a chiedere i voti dei cittadini, sventolando la bandiera dell’autonomia del Veneto.
Ma è anche vero che, dopo vent’anni di promesse, o la partita dell’autonomia si chiude in linea con quanto richiesto dal voto plebiscitario dei cittadini del Veneto, oppure la si abbandona, e si fa qualcosa di diverso, che però con l’autonomia avrebbe ben poco da spartire.
Al momento, cari i miei “Siori”, non ci resta che prendere atto dell’ennesimo rinvio.  Consiglierei però a Salvini di tenere sempre presente che la “delusione” è la peggiore consigliera quando ci si trova in una cabina davanti ad una scheda elettorale.
VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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