14 Novembre 2022 - 11.52

Quando la pizzeria ‘onta’ è il top

La gastronomia si evolve – dai tempi di Apicio, passando per Caterina de’Medici e Pellegrino Artusi molto è cambiato e spesso in bene – e con essa il concetto stesso di ristorazione, con alcune eccezioni.

Se un tempo, per i ristoranti di rango, si prediligevano arredi pomposi – l’influenza francese era evidentissima – tovagliati pesanti, mise-en-place faraoniche con posate del peso di alcuni chili ciascuna e un numero di bicchieri vicino all’infinito, oggi il locale stellato ha virato decisamente in direzione del minimalismo a tutti i costi.

Ecco dunque tavoli spogli come deschi francescani – anche il famigerato runner è sparito – con le posate appoggiate ad un supportino ligneo o ceramico, comunque esile, e i bicchieri che sembrano usciti da una puntata di Spazio 1999; il tovagliolo arriva, già spiegato, con il cameriere che con una pinza lo porge al commensale. Ovviamente qualche incauto lo usa come tovaglia, ma non importa, in epoche passate c’era chi beveva l’acqua ai petali di fiori dalla ciotolina lavamani.

Una categoria resiste ancora strenuamente, incurante degli attacchi delle Legioni dell’Essenziale che vorrebbero anche loro ridotte a templi del desco vuoto e della seggiola scomoda: la pizzeria di quartiere.

Luogo mitico, ammantato di unto cinquantennale, caratterizzato da una cronica mancanza di aspiratori capace di far sì che al conto vada aggiunto anche il costo della lavanderia – possibilmente fornita di servizio autoclave – dove si dovranno necessariamente portare i capi d’abbigliamento indossati per la serata conviviale e che risultano impregnati di un misto di aromi capace di stecchire un bufalo.

Non possono mancare le panche di legno stile birreria, inamovibili quanto un menhir, protagoniste di innumerevoli passaggi di vernice trasparente ormai incapace di coprire le magagne del tempo ma perfette per trattenere eventuali mosche che si fossero incautamente posate.

Le più blasonate offrono apparecchiature con tovaglia e coprimacchie di stoffa, la maggioranza opta per un più spartano tessuto-non tessuto il più delle volte declinato nel classico quadretto bianco-rosso ma talora più arditamente a fiorellini stile Laura Ashley.

La meraviglia sta però sulle pareti, ingentilite da opere varie con le quali si potrebbe riscrivere la Storia dell’Arte.

Non possono mancare le vedute del Vesuvio realizzate con le tecniche più disparate e negli stili più diversi. Si va dal “macchiaiolo” ottocentesco fino al futurismo alla Giacomo Balla, senza trascurare gli zuccheri preraffaelliti; il risultato è sempre il medesimo: croste agghiaccianti.

Popolarissimo anche il tragico puzzle frutto di notti insonni alla ricerca della tessera introvabile e poi incorniciato per far bella mostra di sé tra uno scorcio di Posillipo e una veduta ischitana; qui i soggetti vanno dal floreale alla motocicletta, il tutto in geniale discontinuità con il resto dell’ambiente.

I più raffinati esibiscono anche finti arazzi in cui furoreggiano Totò in versione “Miseria e nobiltà” e scugnizzielli garruli: le manifatture di Gobelin gli spicciano casa.

Meraviglioso anche il patrimonio scultoreo, nel cui ambito svettano il Pazzariello, il Gobbo, la venditrice di sigarette di contrabbando e l’immancabile ubriaco: tutti i musei del mondo se li contenderebbero.

Un capitolo a parte meritano i nomi scelti: se le pizzerie “moderne” – quelle feng shui e col giardinetto zen, per intenderci – si chiamano “Pizzessence” o “PoshPizza” le tradizionali non si staccano da “Bella Capri”, “Bella Napoli”, “Vesuvio”, o ancora le varie “Zi’ Carmela” o “Ciccillo”.

I più arditi fra i tradizionalisti arrivano a spingersi ad arditezze del tipo “Filomena la vajassa” o “Gennarino o’fetente”, così, per suscitare interesse nel pubblico.

In ogni caso a noi, in fin dei conti, le pizzerie da battaglia, quelle che non rinnovano il locale dal 1964 e dove il cameriere non è esattamente uscito dall’istituto alberghiero garbano parecchio, anche perché sono le uniche dove si può ancora mangiare una pizza Quattro Stagioni senza curcuma o una Romana con le acciughe di Cetara al posto di Quelle – olé – del Mar Cantabrico, o ancora una Prosciutto e Funghi sulla quale non ci sia traccia di olio a tartufo o di aceto balsamico.

A proposito, stasera ci vediamo tutti da “Spaccanapoli”, pizza e birra per tutti: ognuno paga per sé.

Alessandro Cammarano

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