9 Giugno 2022 - 10.13

Offro lavoro, ma accontentati! L’Italia, Paese dei lavoretti…

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Personale cercasi… di Alessandro Cammarano

È di poche ore fa la notizia dell’accordo sul salario minimo raggiunto tra Consiglio, Parlamento e Commissione UE.

Sulla carta niente male davvero: tweet entusiastici, grande sventolio di fazzoletti e di proclami dai toni trionfalistici che però tristemente richiamano alla memoria la patetica scena del balcone – in Italia i balconi sono insidiosi da sempre – all’epoca della prima manovra del primo governo Conte, quando si approvò il reddito di cittadinanza e si voleva mandare a catafascio la riforma Fornero.

Ci sono tuttavia già i primi “distinguo” in nome della contrattazione collettiva che, comunque, dovrebbe essere improntata sempre a caratteri di equità, primo tra tutti la dignità del lavoratore.

L’Italia, oltre ad essere paese di Santi-Navigatori-Poeti, è anche il paese dei “lavoretti”, del lavoro in nero ma – come diceva Massimo Troisi – del “lavoro lavoro” mai.

Diamo per buone anche le difficoltà degli imprenditori – soprattutto di quelli che magari avevano iniziato la oro attività giusto prima dell’arrivo della pandemia o che erano freschi di rinnovo locali – che si barcamenano fra tasse e balzelli, che se per altro fossero versati da tutti e con regolarità magari sarebbero meno onerosi visto che gli onesti pagano anche per elusori ed evasori.

Esaurito il preambolo resta un fenomeno da visibile da settimane – più esattamente da quando le attività produttive e commerciali sono ripartite dopo il “liberi tutti” – e sotto gli occhi di ciascuno di noi.

Si parla del cartello “cercasi personale” esposto pressoché ovunque: dal bar al ristorante, dalla bottega alla boutique, dall’albergo alle terme, per non parlare degli stabilimenti balneari.

Tutti cercano, ma a quali condizioni? Quanta ipocrisia si cela dietro annunci del tipo “Vuoi lavorare in team? Sei disposto a crescere? Allora noi facciamo per te!”.

Il giovane medio che cerca lavoro ha compiuto un ciclo di studi, magari parla anche benino una lingua straniera e ha viaggiato quel poco che basta per conosce i modelli occupazionali degli altri paesi.

Sa già cosa lo aspetterà, più o meno, al “colloquio” con il titolare della trattoria “Da Sbolénfia” o col direttore dei “Bagni Lido Azzurro” (i nomi sono di fantasia, meglio specificare), ma ci va lo stesso.

La proposta, generalmente, parte con grandi promesse e con il tremendo incipit “Noi qui siamo come una grande famiglia” per tramutarsi nel breve volgere di pochi minuti in una prospettiva che fa in confronto il “patto leonino” è un’opera filantropica.

Il giovane – ma a causa della crisi pandemica anche il meno giovane – si trova davanti alla seguente, imperdibile opportunità: “Guarda, ti mettiamo in regola con dieci ore settimanali, le restanti sessanta te le paghiamo fuori busta alla metà del minimo contrattuale e i turni li decidiamo noi”.

Non appena il candidato prova, timidamente, a chiedere quando sia la sua mezza giornata di riposo settimanale” … apriti cielo! Il generoso negriero (spero che il termine possa essere usato senza scatenare ondate di “politicamente corretto”) cambia immediatamente tono ed espressione lanciandosi in raffinatezze concettuali del tipo “Io alla tua età lavoravo gratis! Altro che ferie! Ma che ne sapete voi figli di papà che avete sempre tutto subito!”.

A questo punto il presunto figlio di papà, di cui il genitore magari lavora in fonderia e non ai piani alti di una multinazionale, ha un guizzo di orgoglio e saluta dopo avere rifiutato la generosa proposta non prima di essersi sentito dire il fatidico “tanto ho la fila di gente che vuole lavorare per me”.

Peggio va a quelli che, fidandosi delle promesse menzognere, accettano il lavoro per trovarsi un attimo dopo demansionati e guai a dire “ma io sarei stato assunto, sia pure a termine, come cameriere” o “ma non dovevo stare alla cassa?”. Il titolare, o se si tratta di struttura grande il capo del personale, sfodera un sorriso come quello dell’Omino di Burro di collodiana memoria uscendosene con un sibilante “Te lo avevo detto che qui siamo una famiglia, e in famiglia anche i cessi vanno puliti tre volte al giorno. E adesso prendi straccio e scopa che un bambino ha vomitato. Sbrigati”.

Altra pratica indegna è quella dello stage, che per sua natura dovrebbe essere didattico e propedeutico e che invece è da sempre uno svilimento della forza lavoro.

Una catena di supermercati aveva qualche mese fa in bella mostra un cartello con scritto “cercasi stagista per il settore ortofrutta” mancava solo un “possibilmente laureato in agraria o in scienze dell’alimentazione”. Farebbe ridere se non facesse ribrezzo.

Nauseanti, per usare un aggettivo elegante, le prese di posizione di svariati proprietari di locali alla moda – dove per inciso il sottoscritto non metterebbe piede neppure sotto minaccia armata – soprattutto della Costa Smeralda e frequentati da calciatori e starlette. Lì, dove una gazzosa senza cannuccia costa cinquanta euro, i dipendenti li pagano “in visibilità” e, se intervistati, i patròn dichiarano di “essersi fatti da soli”; in alcuni casi dovrebbero dire, e questa sarebbe la verità di “essersi rifatti da soli”.

Stranamente i locali che pagano il giusto e rispettano orari di lavoro non da miniera di carbone dickensiana non hanno difficoltà a trovare personale. Chissà come mai.

Alessandro Cammarano

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