22 Marzo 2021 - 9.49

Il Covid svuota le culle

Per essere aggiornato sulle notizie del Veneto iscriviti al gruppo Facebook: VENETO NOTIZIE Per essere aggiornato con Tviweb entra nel GRUPPO FACEBOOK TVIWEB - NOTIZIE VICENZA E PROVINCIA (Clicca qui)

di Umberto Baldo

Si usa dire che “i conti si fanno sempre alla fine”. E questo vale ovviamente anche per le conseguenze dell’epidemia da Covid 19, alcune delle quali sono però già ben visibili; dal crollo dell’economia, alla crisi dell’occupazione, all’impennata del debito pubblico.
Ma ce ne sono altre meno percepibili, e fra queste riveste una notevole importanza per il futuro del Paese la crisi demografica.
Come vi accennavo, è ancora presto per avere i dati definitivi, ma quelli preliminari resi noti dall’Istat nei giorni scorsi evidenziano che il 2020 è destinato a passare alla storia per due record entrambi negativi: il numero dei morti e quello dei nuovi nati.
I decessi nel 2020 dovrebbero attestarsi attorno ai 700mila (stima 726.000), un numero che negli ultimi cento anni è stato superato solo durante la seconda guerra mondiale, e quello dei nati potrebbe essere il più basso dall’Unità d’Italia.
Per capirci meglio, il saldo fra morti e nati dovrebbe aggirarsi sulle 300mila unità, il che equivale a dire che un’intera città, come Bari o Catania, è stata cancellata all’improvviso dalla carta geografica, oppure, se preferite, tre città come Udine, Vicenza ed Ancona.
Un saldo negativo simile si era avuto solo nel 1918, guarda caso l’anno dell’epidemia dell’influenza “Spagnola”, che determinò la metà dei circa 1,3 milioni di decessi di quell’anno terribile.
Ma fra i due dati, quello dei morti e quello dei nati, al di là del dolore per i tanti che ci hanno lasciato, a destare maggiore preoccupazione, in prospettiva futura, è senza dubbio il secondo.
Soprattutto perchè conferma, peggiorandolo, un trend ormai consolidato da anni nel nostro Paese, che probabilmente non viene tenuto nella giusta considerazione dalla politica.
Dai dati, ricordo provvisori, forniti dall’Istat, si vede chiaramente il crollo della curva delle nascite nel 2020, ma se nei primi dieci mesi il calo medio è risultato intorno al 3,25%, a novembre si è passati al meno 8,2%, e a dicembre, che non è un mese qualunque in quanto è il “nono mese” dall’inizio della pandemia, ecco la voragine, meno 21,63%.
Questi dati sono interessanti anche dal punto di vista dei comportamenti degli italiani nel corso della pandemia.
E chi, confesso che io ero fra questi, immaginava che i mesi di lockdown, con la restrizione forzata entro le mura domestiche, avrebbe facilitato ed incrementato le “attività atte al concepimento”, si deve giocoforza ricredere.
Gli italiani in quei mesi avranno lavorato molto in smart working, si saranno dedicati di più alla cucina, avranno accudito i pargoli assistendoli durante la didattica a distanza, ma sicuramente non si sono abbandonati alle pratiche amorose.
Non c’è stato nessun “baby boom”, e le prospettive delineate, sempre dagli statistici, sono per “culle vuote” anche in questo 2021, in cui si ipotizzano solo 393mila nuovi nati (a fronte dei 408mila del 2020).
Le motivazioni di questo fenomeno sono molteplici, e vanno sicuramente ricercate nel clima di paura ed incertezza determinate dalla pandemia.
Paura per il futuro, instabilità economica, perdita del lavoro, calo del reddito familiare, scenari incerti, hanno sicuramente influito nelle decisioni di rimandare il concepimento a tempi migliori.
Ma ad orientare negativamente le scelte di fecondità delle coppie italiane non vanno a mio avviso neppure trascurati il diffuso clima di ansia, lo stress da lockdown, le limitazioni imposte dalle norme anti contagio, le maggiori difficoltà di accesso alle cure sanitarie, le maggiori difficoltà di organizzazione della vita familiare, la presenza dei bambini in casa, le limitazioni degli spostamenti, l’obbligo del distanziamento sociale.
Tutto questo ha portato, secondo rilevazioni demoscopiche, ad una riduzione dei rapporti sessuali per il 65 % degli intervistati, con un 62% che segnala anche un calo del “desiderio”.
Le conseguenze sono appunto le “culle vuote”, che non può essere visto come un mero dato statistico, un numero fra altri numeri, da scorrere per poi passare ad altro.
Il calo demografico è una vera e propria tragedia per un popolo, tale da portare in prospettiva a veri e propri rivolgimenti sociali.
Non si può fare finta di nulla, anche perchè secondo molti esperti abbiamo già superato il punto di non ritorno.
E sarebbe da incoscienti indicare la pandemia come la causa determinante di questo trend, perchè il Covid 19 ha solo accelerato una tendenza in corso da tempo.
Un Paese che si spopola non solo diventa più debole e più povero, ma in un lasso di tempo relativamente breve anche più instabile.
Ciò è vero a maggior ragione negli Stati moderni, ed europei in particolare, in cui un welfare molto avanzato è ormai determinante per la vita dei cittadini.
Gli squilibri demografici, unitamente all’enorme debito pubblico, possono così diventare le micce per l’innesco di un vero e proprio “incendio sociale”
Non sto esagerando!
Il Presidente dell’Istat Blangiardo ha sottolineato che “già oggi 33 persone su 100 hanno più di 65 anni; fra trent’anni questo numero raddoppierà, e lo stesso farà anche la parte delle pensioni in proporzione al Pil”.
Pensate che il sistema pensionistico ed il sistema sanitario, per limitarci ai settori del welfare più esposti, reggerebbero quando il numero di coloro che dovranno sostenere la baracca con il proprio lavoro sarà nettamente inferiore ai beneficiari?
E’ facilmente intuibile che, come già accade adesso, a fronte di condizioni di vita sempre più incerte e precarie, i pochi giovani decideranno di andare sempre più all’estero.
Ricordo che, dai dati dell’Istat e del Ministero degli Esteri, c’è infatti un’altra Italia che vive al di fuori dei nostri confini, con oltre 50 milioni di italiani tra espatriati e nati fuori dall’Italia nel corso dell’ultimo secolo, anche se quelli che hanno mantenuto la cittadinanza italiana sono poco più di 5 milioni.
Se ci pensate bene, ormai non c’è quasi più famiglia che non abbia un figlio od un nipote traferito in un altro Paese. E’ vero che negli ultimi anni se ne sono andati anche molti pensionati, ma gli anziani per definizione concorrono poco alla crescita del Pil di un Paese.
Si determinerebbe così una spirale negativa incontrollabile, in cui per gli italiani rimasti nella Penisola diventerebbe inoltre sempre più difficile ripagare il debito dello Stato.
C’è da dire che non è un problema solo italiano, dato che l’Europa è sempre più un continente di vecchi.
Ma nel nostro Paese la situazione è più grave, e rischia di sfuggire di mano, non solo per le storiche debolezze strutturali dello Stato, ma anche perchè fino ad ora non è stato fatto praticamente nulla per invertire la rotta.
Chi ci governa, di qualunque parte politica, deve cominciare a “prendere il toro per le corna”.
I tempi, trent’anni come sottolinea Blangiardo, sono brevissimi.
Quindi bisogna mettere mano alle politiche per i giovani, migliorando le loro condizioni di studio e di vita, offendo loro servizi finalizzati a favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro, permettendogli quindi di fare figli qui in Italia, non all’estero.
Non pensiate sia un problema per i settantenni o gli ottantenni di oggi!
E’ un problema per coloro che oggi di anni ne hanno 40 o 50, perchè sono loro che fra trent’anni potrebbero trovarsi di fronte ad uno Stato non più in grado di pagare le pensioni, o di sostenere un servizio sanitario pubblico.
No, non si può più dare il classico calcio al barattolo, sperando nello stellone italico.
E’ arrivato il tempo di agire!
Umberto Baldo

Per essere aggiornato sulle notizie del Veneto iscriviti al gruppo Facebook: VENETO NOTIZIE Per essere aggiornato con Tviweb entra nel GRUPPO FACEBOOK TVIWEB - NOTIZIE VICENZA E PROVINCIA (Clicca qui)
VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

Potrebbe interessarti anche:

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
CAPITALE CULTURA
UNICHIMICA