6 Ottobre 2020 - 9.12

Covid-19 e giornalismo: libertà in pericolo?

Christophe Deloire, Segretario Generale di Reporter sans Frontiere (RSF) commentando lo scorso maggio il rapporto 2020 sulla libertà di stampa (World Press Freedom Index 2020), che contiene la classifica mondiale delle nazioni più virtuose dal punto di vista del diritto di informare ed essere informati, ha dichiarato che i prossimi dieci anni saranno fondamentali per la libertà di stampa, per via di una serie di crisi convergenti. Una crisi geopolitica, dovuta all’aggressività di regimi autoritari nei confronti dei giornalisti. Una crisi tecnologica, per cui l’assenza di una regolamentazione adeguata nell’era della comunicazione digitale ha creato il caos delle informazioni (propaganda, pubblicità e giornalismo sono infatti in diretta concorrenza). E infine una crisi economica che ha causato l’impoverimento del giornalismo di qualità.La crisi pandemica da Covid-19 ha rappresentato sicuramente un banco di prova per il sistema dell’informazione in generale, e per la garanzia di un’adeguata libertà di stampa.E purtroppo non possiamo dire che la situazione sia rassicurante.Un sondaggio condotto dall’IFJ (International Federation of Journalists) su oltre 1300 professionisti in prima linea in 77 Paesi, ha rivelato che tre giornalisti su quattro hanno affrontato restrizioni ufficiali, ostruzioni o intimidazioni durante la copertura della pandemia.E’ noto che già all’inizio dell’epidemia in Cina la censura ha imposto il suo pugno di ferro, facendo sparire dai social network vari post che criticavano le autorità, e censurando gli scritti di giornalisti “non allineati” con il regime. Ma non si contano nel mondo gli interventi delle autorità mirati a limitare la libertà di espressione e comunicazione.Solo per fare qualche nome, Sergej Satsuk in Bielorussia, Dina Zelenskaya in Ucraina, Darvinson Rojas e Beatrìz Rodriguez in Venezuela, sono stati arrestati o aggrediti per avere messo in dubbio dati ufficiali sulla pandemia, o aver fatto servizi poco graditi al potere. Ma anche in Europa c’è stato qualche attacco ai cronisti. Come in Ungheria dove il primo ministro Viktor Orbàn ha criminalizzato qualsiasi informazione “allarmista” sull’epidemia. Il problema è che la legge ungherese sul coronavirus fra le altre cose consente allo Stato di punire con cinque anni di carcere chi pubblica fake news. Ma poichè è il Governo a decidere cosa è vero e cosa è falso, capite bene quale rischio corra un giornalista in terra magiara a scrivere qualcosa di non gradito all’onnipotente Orbàn. Stessa legge, stessa pena anche in Russia, sempre per la diffusione di “notizie false” sulla pandemia. L’elenco dei Paesi che hanno imposto norme finalizzate ad imbavagliare la stampa potrebbe continuare a lungo; dall’Iran all’Iraq, dallo Yemen alla Giordania, all’India, al Brasile e via così.In generale si può dire che l’emergenza sanitaria ha offerto a tutti i Governi autoritari l’opportunità di attuare quella che RSF definisce “dottrina dello shock”, vale a dire sfruttare il disorientamento e le paure dei cittadini al fine di imporre limitazioni all’informazione che sarebbe più difficile attuare in tempi normali.C’è di che essere preoccupati, perchè c’è il rischio che le restrizioni imposte dai paesi autoritari finiscano per “infettare” anche le democrazie liberali. Certe “insofferenze” di Donald Trump contro la stampa libera americana suonano sicuramente come un segnale di allarme.Ed in Italia come vanno le cose per i giornalisti?Sicuramente meglio che in altre parti del mondo, ma certe problematiche sono presenti anche nel nostro Paese.Nei primi mesi della pandemia abbiamo assistito sostanzialmente a tre livelli di informazione sul Covid-19.   Quella “istituzionale” in diretta Tv del Capo della Protezione civile Angelo Borrelli, del Commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, e del Presidente del Consiglio Superiore della Sanità Franco Locatelli. Un tipo di informazione per forza di cose asciutta, burocratica, solenne, cauta. Molto ossequiente nei confronti del Potere politico, portata a minimizzare le cose che non funzionavano, insofferente alle domande scomode dei giornalisti.Quella dei quotidiani, grandi o piccoli non importa, meno legata ovviamente ai livelli istituzionali, e quindi più portata a fornire un’informazione libera, poco condizionata, ma allo stesso tempo “controllata”, nel senso che i giornali seri prima di pubblicare una notizia ne verificano in primis la veridicità. Certo i giornali non sono tutti indipendenti, ammesso che esista l’indipendenza; alcuni sono decisamente di parte, ed il risultato è spesso un’informazione pro o contro il Governo del momento. A questo secondo livello appartengono sicuramente anche le televisioni ed i network in cui operano giornalisti affidabili e professionalmente validi.Infine, e potremmo dire quasi sul fronte opposto, il mondo dei social – Istagram, Facebook, Twitter, Messenger – dove circola di tutto; la buona informazione, quella meno buona, quella pessima. Non c’è alcun dubbio che il Web sia stato l’incubatore di quasi tutte le fake news che hanno imperversato nei mesi scorsi.Da quelle illusorie tipo terapie miracolose, agli allarmi ingiustificati, a certe campagne anti vaccini, anti mascherine, anti lockdown.Non possiamo sottacere che si è poi inserito un altro livello di comunicazione: quello di alcuni Presidenti di Regione, con idee spesso divergenti da quelle del Governo centrale, che hanno contribuito in certi momenti ad aumentare il disorientamento fra i cittadini.La babele era tale che, forse non tutti lo ricorderanno, il Governo in aprile nominò una eterogenea task force di professionisti per combattere la disinformazione sul Covid-19. A comporla vennero chiamati Riccardo Luna, giornalista investigativo di Repubblica, David Puente, già comunicatore web di Di Pietro e poi nell’orbita della Casaleggio Associati, Ruben Ruzzante, docente di diritto dell’informazione alla “Cattolica” e collaboratore del “Quotidiano Nazionale”, Luisa Verdeoliva, associata di Telecomunicazioni all’Università di Napoli, Francesco Piccinini, direttore del sito Fanpage, Giovanni Zagni, dal 2017 direttore del sito Pagellapolitica, Fabiana Zollo, informatica e ricercatrice all’Università di Napoli, Roberta Villa, giornalista scientifica laureata in medicina.Mi sembra che questa “Task force contro le fake news” non abbia avuto un grande successo, anche perchè, com’era prevedibile, da molte parti, ed anch’io la pensavo così, si obiettò che il compito assegnatole di assicurarsi che venisse diffusa solo la “verità” sul Covid-19 assomigliava molto a quello del “Ministero della Verità” di Orwelliana memoria. La sacrosanta battaglia a difesa della libertà di stampa non deve però portarci a chiudere gli occhi di fronte ad un fenomeno epocale, definito “infodemia”, cioè la diffusione di una quantità di informazioni enorme, proveniente da fonti diverse, e dal fondamento spesso non verificabile.Una sorta di “contagio informativo” che può rendere più problematica per le Autorità preposte la possibilità di trasmettere istruzioni chiare e univoche, e di ottenere di conseguenza comportamenti omogenei da parte dei cittadini.Questa è la vera differenza dell’epidemia da Covid-19 rispetto a quelle del passato, quando la maggior lentezza di trasmissione delle notizie, ed il numero limitato di mezzi di informazione, consentivano di reagire in modo più ordinato.Oltretutto in Italia la percentuale di utenti abituali del Web che fanno riferimento prioritariamente ai canali di comunicazione “istituzionale” è sensibilmente inferiore a quella degli altri Paesi europei, tipo Germania o Francia. Questo significa che l’italiano medio ricorre e si affida sistematicamente a fonti di informazione alternative a quelle ufficiali, ed ecco perchè l’infodemia nel nostro Paese trova terreno particolarmente fertile, ed attecchisce più che altrove. A mio avviso da noi il successo dei social deriva dal fatto che si tratta di una sorta di palcoscenico in cui ognuno può presentare, o cercare di imporre, i propri punti di vista, le proprie idee, la propria immagine, senza subire conseguenze reali, conseguenze che purtroppo bisogna mettere in conto in altre parti del mondo.E’ incontrovertibile che la comunicazione social è diventata anche protagonista nella gestione della crisi da Covid-19 e della critica alle misure del Governo, nel tentativo di acquisire follower, viralità (sic!) nella trasmissione di messaggi sempre più disintermediati.Resterà famosa questa frase di Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.Si tratta di parole durissime, a mio avviso forse ingenerose, ma io penso che dietro questo attacco ci fosse anche un invito ad una riflessione più attenta su un tema che non può più essere ignorato; quello di trovare un modo per introdurre un qualche filtro alle fake news, soprattutto in momenti drammatici come quello attuale, in cui dall’affidabilità dei messaggi possono dipendere vite umane.  Compito sicuramente non facile, ma che non può comunque essere risolto introducendo una qualche forma di censura.Perchè se si accetta la censura sui social media, prima o poi qualcuno penserà di introdurla anche per la stampa e per la comunicazione giornalistica in generale.Dobbiamo essere consci che difendere la libera stampa, il pluralismo e l’indipendenza dei media, vuol dire difendere l’essenza stessa della democrazia ed il rispetto dei diritti umani. In quest’ottica una stampa libera ed autorevole, e network come la nostra Tviweb, sono e saranno un’arma decisiva anche per sperare di vincere la sfida del Covid-19. 

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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