26 Luglio 2019 - 10.13

Scalòn, pandolo, biglie, fionda e altri giochi estivi… uccisi dallo smartphone

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Il sapore di altre estati, come cambiano le abitudini degli italiani in vacanza

di Umberto Baldo

Mi è capitato di recente di partecipare ad un classico pranzo di nozze. Fra gli invitati, assieme ai genitori, c’erano anche ragazze e ragazzi di età compresa fra i sette ed i dieci anni, che dopo qualche tempo mostravano la loro insofferenza nel restare compostamente seduti a tavola, ad ascoltare i discorsi dei “grandi”.

Ad un certo punto un genitore disse: “ragazzi, perché non uscite ed andate a giocare?”. I pargoli si alzarono felici di poter finalmente abbandonare l’atmosfera del banchetto, e li vidi correre tutti insieme verso il giardino che circondava il ristorante.

Dopo una decina di minuti uscii per fumarmi una sigaretta, vizio maledetto, e immaginate il mio stupore nel vedere che i ragazzi non stavano giocando fra loro, bensì stavano seduti chi qua chi là con lo smartphone in mano, ciascuno concentrato nell’universo chiuso del video e della tastiera.

L’episodio mi è tornato alla mente in questi giorni d’estate caldi ed assolati, lasciando correre la memoria ad “altre estati”, di parecchi decenni or sono, ahimè.

Tranquilli!

Non intendo lanciarmi in pedanti considerazioni pedagogiche, né tanto meno lasciarmi trascinare nel vortice dell’ “amarcord”.

Non sono un cultore del “vintage” tout court, e so apprezzare i vantaggi del progresso, soprattutto in campo tecnologico. 

Non sono, in parole povere, un sostenitore del classico “ai miei tempi si stava meglio”, semplicemente perché non è affatto così.

Sono conscio che ogni periodo storico ha le sue peculiarità e le sue problematiche, che non possono non influenzare e condizionare la vita ed i comportamenti di adulti e ragazzi.

Però permettete ad un “diversamente giovane”, come a mio avviso con una punta di ironia si usano definire oggi le persone di una certa età, di riandare con la memoria ad altri anni, quelli in cui la gioventù c’era davvero, per ricordare come vivevamo da ragazzi le estati di allora.

Nel ricordo l’estate era lunga, e questo deriva certamente anche dal fatto che la percezione della velocità dello scorrere del tempo varia con l’avanzare dell’età; troppo lenti gli anni quando si è giovani, troppo veloci quando si è vecchi.

Le vacanze iniziavano grosso modo il 13 giugno, festa di “Sant’Antonio”, per protrarsi fino a fine settembre. Allora non c’erano date variabili per l’inizio delle scuole; in tutta Italia si rientrava nelle aule sempre il 1° ottobre.

Quindi per circa 100 giorni noi ragazzi eravamo liberi di giocare, perché quello era il nostro impegno esclusivo, dalla mattina alla sera.

E quale era la palestra dei nostri giochi?

Semplicemente la strada.

Ma non nel senso negativo che questo termine può anche assumere.

Tutto allora era strada, in quanto gli spazi urbani non erano come quelli di adesso.

Non parlo delle città ovviamente, ma dei Paesi del nostro Veneto, in un’epoca, gli anni ’60, in cui le automobili erano molto poche, e c’erano ancora molte aree libere a disposizione di noi ragazzi. E per chi, come me, aveva i Colli Euganei vicini, le opportunità di svago erano ancora maggiori.

C’erano meno rumori di fondo nei nostri Paesi, e quindi il vociare e le grida dei ragazzi erano chiaramente percepibili ovunque.

Oltre a tutto eravamo in tanti. Erano gli anni del boom demografico, in cui le famiglie con più figli erano ancora diffuse, e di conseguenza le “compagnie” di ragazzi erano molto numerose. 

E ci si cercava fra di noi. Quando non vedevamo un amichetto, si andava a suonare il campanello di casa sua per chiedere cosa fosse successo, e come mai non era “giù” con tutti noi. 

C’era il piacere e l’orgoglio di fare parte di un “gruppo”, per mettersi alla prova, riuscendo a superare anche qualche difficoltà.

In definitiva la strada e la fantasia erano alla base dei nostri divertimenti.

Non eravamo poveri, ma non c’erano sicuramente playstation o smartphone, o quant’altro la moderna tecnologia offre ai ragazzi d’oggi.

Senza spese eccessive, ma utilizzando semplici oggetti spesso di risulta, tutto diveniva occasione di gioco.

Un pezzo di legno, opportunamente sagomato, diventava una spada. Una tavola di compensato, tagliata e dipinta, uno scudo, un tubo da lampadari di plastica o di ferro una cerbottana, e così via.

Ma a cosa si giocava?

I giochi erano vari e numerosi.

Si andava dalla trottola, alle biglie o ai tappi di metallo delle bottiglie, con cui si facevano gare su percorsi sempre diversi (dal Giro d’Italia a Gran Premio di Monza). 

Si giocava a nascondino, soprattutto quando era già buio, e quindi era tutto più difficile. 

Molto gettonata la cerbottana, con i proiettili fatti con carta arrotolata a cono, e tenuta unita con la saliva. Qualche “mariuolo” usava inserire nella punta del proiettile uno spillo, rendendo il gioco sicuramente più pericoloso.

Apprezzata dai maschietti anche la fionda, con cui si andava a caccia di uccellini, finendo talvolta per rompere i vetri di qualche casa. 

Grandi spazi per giocare richiedeva la lippa, che assumeva nomi diversi da luogo a luogo. A Venezia era nota come pandolo, a Padova come pìndolo, a Treviso come pito, a Vicenza come còncio, a Verona come s-cianco. Le regole erano diversificate, ma gli strumenti del gioco erano sempre quelli: due pezzi di legno, di solito ricavati da manici di scopa, uno di circa 15 cm con le estremità appuntite, l’altro di circa mezzo metro, con il quale si faceva saltare il pezzo più piccolo (questo il motivo delle estremità appuntite) per poi colpirlo. 

Molto spettacolare il gioco della “mussa che vegno” o “saltamussa”, che consisteva nel saltare sulla schiena dei ragazzi dell’altra squadra, cercando di non cadere. Ovviamente, più alto era il numero dei giocatori che riuscivano a stare accavallati gli uni sugli altri, più ci si divertiva.

Ovviamente il pallone rimaneva uno dei giochi più “gettonati”, e ci si sfidava dappertutto, anche nelle piazze o nelle strade.

L’elenco dei giochi di allora sarebbe ancora molto lungo, tanta era la fantasia e la voglia di stare assieme. 

Molto apprezzato dalle ragazze era ad esempio lo “scalon”, che richiedeva agilità ed equilibrio, in quanto consisteva nel muovere con un solo piede una pietra lungo un percorso disegnato per terra.

Mi rendo conto che le condizioni logistiche e sociali di cui abbiamo potuto godere noi “ragazzi di allora” sono ormai irripetibili.

La crescita urbana, inarrestabile anche nel nostro Veneto, ha via via sempre più ridotto le superfici libere da strade, edifici e capannoni. E con il traffico automobilistico attuale è diventato pericoloso andare pure in bicicletta fuori delle apposite piste. Pensare che, in quegli anni, sulla strada ci si sfidava anche con i pattini a rotelle, e con una specie di go kart artigianali fatti da una tavola di legno, cui si applicavamo dei cuscinetti a sfera come ruote.

Di conseguenza è cambiato anche l’atteggiamento dei papà e delle mamme, che sono portati a vedere, forse giustamente, pericoli ovunque, e sono quindi indotti ad organizzare e gestire in prima persona il tempo libero ed i divertimenti dei pargoli.

Al contrario, i nostri genitori ci invitavano ad uscire con i nostri coetanei, perché allora erano tranquilli nel saperci impegnati a giocare con gli altri bambini, e perché erano consci che la strada poteva offrirci non solo divertimenti, ma anche “insegnamenti”. Infatti per strada si litigava, ci si confrontava, si condividevano esperienze, ci si dava regole che bisognava rispettare. E se giocando capitava di farsi qualche sbucciatura o qualche ecchimosi, non si correva mai a casa a piangere, anche perché si correva il rischio di prendere per sovra mercato anche qualche scappellotto. Ed era regola rispettata quella di non mettere mai i genitori in mezzo alle nostre beghe, oltre che non riferire il nome di un compagno che aveva fatto qualche marachella.

In breve, si imparava a “vivere insieme agli altri”, in piena libertà, senza avere sempre qualcuno che ti dicesse cosa fare e come comportarsi.

E c’è da dire che l’intera società era molto acquiescente con i giochi dei ragazzi. A parte qualche giusta lamentela per qualche vetro rotto o altri danni, era piuttosto raro che i grandi ci mandassero via o ci rimproverassero.

L’unico cedimento alla nascente rivoluzione mediatica era la pausa obbligatoria alle 17/17,30 per vedere la TV dei Ragazzi. Allora la Rai trasmetteva per poche ore al giorno, e la giornata televisiva cominciava appunto a quell’ora con programmi dedicati ai più giovani, per poi interrompersi dopo circa un’ora, e riprendere successivamente verso le ore 20 con la programmazione serale. Durante quell’ora stavamo incollati allo schermo nelle case dove c’era il televisore (ancora non ce l’avevano tutte le famiglie) per goderci i primi telefilm, solitamente americani: da Lancillotto del lago a Penna di Falco, da Rin Tin Tin ad Ivanohe (interpretato ricordo da un giovanissimo Roger Moore), da Avventure in elicottero al cartone animato Pau How, che raccontava le storie di un piccolo pellirossa e della sua tribù.

Vi dicevo all’inizio che non ho intenzione di indulgere in uno stucchevole “com’era verde la mia valle”, ma non posso non osservare che ormai le strade sono vuote di bambini e del loro vociare. 

La nostra società, per problemi che non si possono certo addebitare ai genitori, tende sempre più all’individualismo. Ed in nome della sicurezza, indubbiamente importante, lasciamo che i nostri ragazzi stiano sempre più soli in casa davanti alla Playstation, o a guardare i cartoni animati sulla Pay per view.

Non è più il gruppo, la compagnia, a regolare le giornate delle vacanze; non è più la strada il luogo dove si cresceva e si imparavano le regole del vivere insieme. Al riguardo mi sembra emblematico che le feste di compleanno, organizzate dai genitori come veri “eventi”, siano diventate uno dei pochi momenti di aggregazione dei ragazzi d’oggi.

Concludendo, sarebbe antistorico anche solo immaginare di ripristinare le condizioni che hanno permesso alla mia generazione di socializzare in strada attraverso il gioco di gruppo. Quando la strada livellava le diversità, anche sociali, e obbligava a stabilire un contatto con la realtà; quando nella strada la vita diventava un gioco, ed il gioco era la vita.

Ma almeno consentite a noi “giovani d’altri tempi” di ricordare con un certo rimpianto il sapore di “quelle estati”.

Umberto Baldo

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