5 Febbraio 2024 - 10.19

Ospedale di Vicenza: parcheggiare è un incubo

di Alessandro Cammarano

C’era una volta il Servizio Sanitario Nazionale, nato il 24 dicembre 1978 con la legge di riforma sanitaria n. 833, che introduceva un modello universalistico di tutela della salute, sostituendo il vecchio sistema mutualistico fino ad allora vigente e ponendo gli oneri a carico della fiscalità generale. Questo nuovo assetto perseguiva gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le istituzioni attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria, con l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali (USL) e la formazione del Distretto Sanitario di Base.

Seguirono anni complessi d’instabilità sociale e politica, unitamente all’impossibilità di combinare una domanda sanitaria potenzialmente infinita, con una disponibilità di risorse sempre più “finita” e “contenuta” dall’esistenza di espliciti e crescenti vincoli finanziari.

A furia di modifiche, almeno tre, il SSN è oramai ridotto ad un colabrodo – fra tagli posti letto e di personale, chiusura di strutture e obsolescenza delle attrezzature – di soddisfare le richieste dei cittadini sempre più costretti a rivolgersi al privato, cosa che di fatto, per uno che le tasse le paga, dovrebbe essere un’alternativa possibile e non la regola o, peggio, una costrizione.

Sia come sia, a parte alcune “eccellenze” – parola orrida applicata a sproposito a qualsiasi cosa – farsi visitare o sottoporsi ad un esame clinico o diagnostico in convenzione è diventato praticamente impossibile, a meno che non si vogliano attendere tempi geologici sperando sempre che la chiamata per la risonanza magnetica o per la visita specialistica ci trovi ancora in vita.

Non basta: troppo spesso il degrado non attiene solamente alla struttura sanitaria, ma anche – e talvolta soprattutto – a quello che intorno ad essa ruota.

Questa volta, dopo il consueto “preambolo alato” – leggasi pistolotto – vorrei focalizzare l’attenzione del lettore su di uno degli aspetti più odiosi, squallidi e pericolosi che riguarda l’Ospedale San Bortolo: i parcheggi.

Partiamo dal meno peggio, ovvero quello piccino in viale d’Alviano: se si riesce ad accedervi – talvolta la fila parte quasi dal semaforo all’incrocio con via Pagliarino – ci si trova in una bolgia di auto ferme e inutilmente speranzose che qualcuno tolga il disturbo.

Una volta compreso che di parcheggio-trippa per utenti-gatti davvero non ce n’è si prova alle due zone di sosta in via Rodolfi: e qui sì che comincia davvero l’inferno.

Anche in questo caso l’entrata è complessa, e si sta usando un eufemismo, dato che si deve letteralmente fare lo slalom tra auto parcheggiate male, ma male davvero e questa volta non sempre per colpa del conducente.

Le strisce blu, o stalli che di si voglia, sembrano essere frutto della mente obnubilata di un pittore pazzo – ve lo ricordate l’uccello folle che disegna la strada percorsa da Paperino in “Saludos Amigos”? – che abbia deciso di condurre alla follia chiunque tenti di stazionare.

Ci sono stalli obliqui, a lisca di pesce, a coda di rondine, verticali, sinusoidali, ma soprattutto strettissimi, il tutto condito da cartacce e immondizia varia che punteggiano l’intera area.

Se dopo una mezz’ora si riesce a trovare un buco si deve fare attenzione a non finire di corsa e senza passare dal via al CTO, perché le radici che ondulano l’asfalto rendendolo simile ad un circuito da cross sono ovunque, si viene assaltati dal questuante di turno.

Gli accattoni – mi scuso, ma non so come chiamarli altrimenti – sono rigidamente classificati: si va dalla solita zingara che si offre di leggerti la mano ma che in realtà studia il modo migliore per sfilarti il portafogli al “posteggiatore” che con fare spesso al di là del minaccioso ti fa capire che o sganci qualcosa oppure l’automobile, al tuo ritorno, potrebbe non essere più la stessa.

Un classico è anche il tossico che chiede immancabilmente un euro “per un panino” che però, se gli si offre il pacchetto di biscotti che stavi portando alla bisnonna ricoverata in geriatria, ti manda letteralmente a quel paese.

Ancora – e di questo sono testimone diretto – una volta superata la torma di questuanti si arriva al cancello che immette al vialetto d’ingresso e si finisce dritti in bocca al gruppo di beghini che “pregano” esibendo orgogliosi ecografie di bimbi o addirittura il feto di gomma caro ai movimenti “Provita”.
Ciascuno la pensi come vuole, ma personalmente non gradisco.

Per fortuna, percorrendo il giardino che separa l’orrendo parcheggio dall’edificio ospedaliero, ci si imbatte in un nugolo di coniglietti di tutte le taglie e colori capaci di riportare il sorriso prima di accedere all’agognata prestazione sanitaria.

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