1 Ottobre 2020 - 16.54

Le parole insopportabili: da ‘resiliente’ a ‘tavolo partecipativo’

Le parole insopportabili… di Alessandro Cammarano

Correva l’anno 1980 quando nelle sale cinematografiche uscì quel “Un sacco bello”, il primo capolavoro di Carlo Verdone – che per inciso appartiene alla categoria dei Grandi Romani – dove, oltre al tamarro Enzo e a Furio il timido, si incontra Ruggero l’hippie il cui ricorrente tormentone dà il titolo al film.

Ruggero-Verdone è in qualche modo l’iniziatore e lo stigmatizzatore di una certa terminologia “di moda” che caratterizza il linguaggio e varia negli anni mantenendo sempre e comunque un alto tasso di insopportabilità.

L’hippie strafatto di maria ha come intercalare “cioè”, infilato dappertutto come la rucola e soprattutto dove non c’entra nulla. Sono gli anni in cui faceva intellettuale e la faceva da padrone ficcare nei discorsi anche il terrificante “nella misura in cui” – particolarmente caro agli ambienti radical-chic .

Gli anni Novanta del secolo scorso partoriscono orrori tipo “un attimino”, che faceva tanto milanese imbruttito e veniva usato al posto di qualsiasi cosa. Per non dire che qualcuno era più inguardabile di un pozzo nero si diceva “è un attimino brutto” o se un piatto era più immangiabile di un pappone da galera allora era “un attimino salato”.

Esaurita la premessa storica, dalla quale per altro salta immediatamente all’occhio l’origine degli abissi in cui è precipitato il linguaggio – hai voglia a dire che si tratta di naturale evoluzione – sta nel web, nella perfida rete che se usata male o a sproposito ingurgita tutto e tutti e rivomita mostri.

Se in un discorso, pardon in uno “speech”, non si infilano termini anglosassoni – generalmente resi con pronuncia imbarazzante – si passa per ignoranti col botto e si è automaticamente esclusi dal novero di “quelli che sanno”.

L’isolamento – lockdown per i neoacculturati – da Covid ha portato ad un incremento esponenziale di parole insopportabili.

Tutti noi durante la forzata permanenza all’interno delle mura domestiche siamo stati coinvolti in un “webinar”, agghiacciante neologismo che unisce in una crasi mortale le parole “web” e “seminar”. Trattasi dell’evoluzione delle antiche lezioni per corrispondenza, per intenderci quelle con cui imparavi a fare l’elettrauto o l’antennista studiano sulle dispense che arrivavano per posta.

Il vantaggio rispetto a un seminario in presenza è che anche il top manager – da alcuni anni anche l’usciere è diventato “in and out manager” – può indossare giacca e cravatta ma non i pantaloni e millantare case e librerie favolose alle sue spalle grazie alla funzione “sfondo virtuale” mentre invece svolge il suo intervento in zona cucina-cesso.

Tra i peggiori si accredita a pieno diritto “storytelling” – che in Italiano sarebbe “affabulazione”, parola meravigliosa – che consiste nell’arte di darla a bere a potenziali clienti o a persone direttamente coinvolte in un progetto commerciale, che ovviamente rispondono pure loro al britannico nome di “stakeholders”. La tragedia è che lo storyteller è uno che racconta ad una platea di analfabeti funzionali, che spesso pensano in dialetto stretto e traducono in italiano claudicante, le vicende di Robin Hood per motivare la platea a strappare alla concorrenza il monopolio della vendita di caciotte di malga o di graffette metalliche come se si trattasse della conquista di una galassia lontana.

Tornando a orrori nostrani non si può non citare il “tavolo partecipativo”, inteso come assemblea chiamata a prendere decisioni di cui nessuno – tranne forse lo storyteller di cui sopra – ha esatta contezza ma al quale tutti intervengono. Esempio: per determinare la collocazione di una panchina ai giardinetti vengono invitati a esprimersi nell’ordine, oltre al geometra del Comune e all’assessore al verde pubblico, due anziani (maschio e femmina), una coppia di piccioni, uno scoiattolo grigio e uno rosso, un barbone e un rappresentante per ciascuna delle tre religioni

monoteiste, oltre all’immancabile sociologo. Generalmente la panchina resta nei depositi comunali per i dieci anni successivi.

La palma va comunque a “resilienza” e “resliente”, il cui uso andrebbe non solo proibito a chiunque per almeno due secoli ma pure pesantemente sanzionato.

In epoca di pandemia tutto è diventato “resiliente” e la “resilienza” è il nuovo stato dominante.

A domandare in giro ci si accorge che il termine – il cui significato è semplicemente quello di “mantenere la forma originaria nonostante le sollecitazioni esterne riferita a corpi rigidi” – non è solo sconosciuto, ma orrendamente abusato. Oramai si apprezza anche la resilienza della panna montata.

Ultima considerazione: “piuttosto che” è avversativo non disgiuntivo e il suo equivalente è “anziché”, non “o”. Sappiatelo.

Alessandro Cammarano

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