8 Marzo 2023 - 8.36

L’8 marzo delle donne che non lo possono festeggiare

Oggi è l’8 marzo, e come ogni anno gli schermi degli smartphone saranno inondati da immagini di fiori, di cuori, di frasi ridondanti e retoriche, in un tripudio di giallo, perché giallo è il colore della mimosa, fiore simbolo della Festa della donna.

Ormai tutto si è ridotto ad uno stanco rito, una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne, ovviamente solo quelle che hanno la fortuna di vivere nel mondo libero, vengono omaggiate con fiori e cioccolatini, in cui attempate femministe d’altri tempi si concedono serate di “libera uscita” scimmiottando le modalità predatorie maschili, in cui si ripetono sequenze monotone di cerimonie ridotte e gesti rituali consunti ed abitudinari.

Diciamola tutta: l’8 marzo non è la “Festa della donna“.

Si chiama così solo in Italia; nel resto del mondo viene celebrata la “Giornata internazionale della donna”, che ai suoi albori aveva un potente significato politico e sociale, disperso ed annegato progressivamente nella supremazia del mercato e nella logica del profitto.

Cosa fare allora? Non celebrare più l’8 marzo?

No, non è questo a cui penso.

Io credo che questa ricorrenza, e vedete che evito di chiamarla “Festa”, debba essere dedicata a tutte quelle donne, e sono tanti milioni, che l’8 marzo non possono festeggiarlo, perché vivono oppresse in società in cui nascere donna rappresenta un accidente negativo del destino.

Facendo un rapido conto, sono sicuramente la maggioranza i Paesi, (dall’Asia, all’Africa, all’America latina) in cui i diritti delle donne sono negati e calpestati, in cui sono considerati la norma atti persecutori o stalking, in cui vige il divieto di intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, il divieto di possedere un patrimonio, l’aborto selettivo, le mutilazioni genitali, i matrimoni coatti, per non parlare di omicidi, stupri e istigazioni al suicidio.

Non per fare una selezione inaccettabile sotto ogni aspetto, ma per non scrivere un’enciclopedia dell’orrore, mi soffermo solo su due realtà che sentiamo in qualche modo vicine, perché le cronache ce ne riferiscono continuamente, e parlo dell’Iran e dell’Afghanistan.

E partiamo dall’Iran in cui la furia repressiva, finalizzata a bloccare le legittime proteste di piazza contro il regime liberticida e sanguinario degli Ayatollah, è arrivata ad avvelenare le scuole femminili, a partire dalla città santa di Qom.

Le notizie trapelate riferiscono di centinaia di avvelenamenti fra le bambine delle scuole femminili iraniane, con i primi casi segnalati già a novembre dell’anno scorso. È difficile trovare in rete fonti e testimonianze dirette. Un’insegnante anonima, ripresa da più parti, avrebbe raccontato che «delle 250 giovani della mia scuola, continuano a venire in aula solo in 50». 

Il fine dei “custodi dell’ordine morale e religioso” è chiaro, e nella loro ottica criminale l’operazione di avvelenamento sarebbe finalizzata ad escludere le bambine e le ragazze dall’istruzione, così come avviene nel vicino Afghanistan.

L’obiettivo palese è quindi la perpetuazione dell’ignoranza della popolazione femminile, perché i preti temono le donne colte, cui risulta difficile imporre di essere solo degli esseri funzionali alla riproduzione, senza diritti, e sottomesse all’uomo. 

Qualche teologo islamico ha tentato di affermare che l’Islam non sarebbe misogino; sarà anche vero ma è innegabile che sono per lo più i Paesi musulmani a non riconoscere alle donne la pienezza dei diritti. 

Ma spostandosi dalla Repubblica Islamica dell’Iran all’Emirato Islamico dei Talebani afghani, il quadro si fa addirittura più allarmante.

Nelle città dominate dagli studenti coranici le donne è quasi impossibile incontrarle mentre camminano, perché lo spazio pubblico è loro precluso; strade, parchi, perfino i mercati, sono esclusivo territorio maschile. 

In quest’ottica dal 20 settembre 2021 a tutte le ragazze afghane al di sopra dei 12 anni è stato vietato di andare a scuola.

A onor del vero c’è stata qualche critica da parte di altri importanti Paesi Musulmani per le decisioni dei Talebani, che però continuano imperterriti nella loro politica di annullamento civile delle donne, alle quali l’unico modo concesso per esistere è quello di scomparire. 

E di fatto lo sono, occultate  dagli occhi ai piedi in una prigione che non ha nulla di simbolico, rinchiuse nei burqa dai Taliban, poliziotti coranici semi analfabeti e sessuofobici che frustano, amputano, umiliano le donne.

Per le afghane il burqa non è una libera scelta. Il burqa è come la stella gialla a suo tempo imposta agli ebrei, è l’obbligo di mostrare la propria sottomissione e la propria inferiorità. 

Dal burqa in poi, le donne afghane, che prima dei Taliban erano presenti nella vita politica e culturale del paese, in qualità di medici, infermiere, ingegneri, insegnanti, sono state costrette a scomparire dal mondo. 

Oggi, se si ammalano, fanno anche fatica a trovare chi possa curarle, perché per gli studenti coranici nessun medico maschio deve toccare il loro corpo impuro. 

Oggi in Afghanistan i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti; sono comportamenti governati dalla sharia, giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. Le leggi cambiano e sono i Talebani a dettarle. La giustizia è sprofondata nel fanatismo, e nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono; impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate.  

E così la violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica,  che non è oggetto di alcuna sanzione; se vengono picchiate, o peggio, la  colpa è delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. 

Con tutto ciò non voglio dire che l’8 marzo debba essere un giorno triste, ma semplicemente ricordare a tutti noi che per le donne non c’è nulla da festeggiare in Afghanistan, in  Iran, nel Corno d’Africa dove si stima che l’orrore delle mutilazioni genitali femminili colpisca il  98 per cento delle donne e delle ragazze, in India, in  Nepal, in Mali, in Pakistan, in Ciad, in Yemen, ed in generale in tutti i Paesi, e sono troppi, dove la “mimosa è solo un fiore”.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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