28 Settembre 2020 - 10.00

Aeroporti da incubo

Qualcuno si ricorda della serie dei film “Airport” – genere “catastrofico” – che dal 1970 al 1979 imperversarono nelle sale cinematografiche di tutto il mondo grazie anche ad effetti speciali, che  oggi sembrano paleolitici ma per l’epoca erano parecchio all’avanguardia, e cast stellari in cui brillavano ancora vecchie glorie del cinema muto.

Si narrava di guasti simultanei di tutti i motori dell’aeromobile di turno, risolti da piloti muscolosi e fighissimi, o di nevicate capaci di inchiodare per giorni migliaia di passeggeri – sempre straeleganti e con valigeria coccodrillata – in sale d’aspetto inesistenti nella realtà ma del tutto simili a luoghi dove si vorrebbe trascorrere la vita intera tra champagne, canapè e hostess che paiono uscite da Vogue.

Ecco, si trattava di fantasia – fiction se preferite – perché la realtà è tutta un’altra.

L’aeroporto post Covid è uno dei luoghi più tristi dell’universo. All’arrivo si scopre che l’unico accesso aperto è l’ultimo in fondo rispetto al parcheggio dove si è lasciata l’auto o dove il parente pietoso, che ti ha accompagnato di malavoglia, ti ha abbandonato. Trascinandosi dietro il trolley si raggiunge il posto di controllo dove un giovanissimo o un anziano – strani questi estremi generazionali – verificano il corretto posizionamento della mascherina per poi puntare alla fronte l’ormai noto termoscanner. Vista la faticata per arrivare all’ingresso la temperatura rilevata oscilla tra i 32 e i 34 gradi, tipo salamandra, a testimoniare una pressione arteriosa sotto i 100.

Superati Scilla-termometro e Cariddi-gel igienizzante ci si incammina verso i controlli di sicurezza, sicuri del fatto che, visto che parte un aereo l’ora, non ci si impiegherà poi tanto; mai valutazione fu più sbagliata.

La fila che si snoda serpentina è lunga come nemmeno quando si partiva per le vacanze estive, forse addirittura più lunga. Il distanziamento, segnato con gli ormai soliti adesivi appiccicati in terra, scandisce un percorso tra Monopoli e il Gioco dell’Oca, con il conseguente timore di finire in galera senza passare dal via o di dover retrocedere di venti caselle.

L’umanità in fila dà il peggio di sé – a proposito, com’era la storia di “andrà tutto bene”? – facendo emergere comportamenti da fare impallidire un manuale di psicopatologia.

C’è chi si disinfetta le mani sfregandosele come neppure Lady Macbeth quando cerca di togliere il sangue di re Duncan, altri pretendono un doppio distanziamento reclamandolo con protervia e aggiungendo un torvo “sennò moriamo tutti”. Una signora, anche giovane, che aggredisce verbalmente un povero ragazzo reo di starle solo a 98 centimetri di distanza viene spedita a quel paese ancor prima di essere partita. Alcuni, per essere sicuri di non avere contatti smettono di lavarsi una decina giorni prima della partenza, col risultato che neppure la più ermetica delle mascherine FPP2 è in grado di salvare dall’afrore caprino che si diffonde.

Superate le forche caudine con crescente disagio – anche perché la gente è mediamente sprovveduta pur millantando esperienze di volo risalenti ai tempi di Bleriot e non ha ancora capito che la cintura dei pantaloni va tolta e il laptop si mette in un cestino separato – si arriva alla zona d’utente-free, un tempo luogo di pacchia per gli spendaccioni e i curiosi. Il transito è rapido, indifferente  nonostante gli sguardi tra il complice e il supplichevole delle povere commesse che tentano di proporre l’ultima fragranza uscita sul mercato, spesso proprio al puzzone che ha poco prima ammorbato chiunque.

Il caffè si prende al tavolo, servito da camerieri spaesati, e la brioche si sceglie tra le poche disponibili; tristezza.

Giretto per i negozi? Figuriamoci; sono per la maggior parte chiusi, tranne la farmacia che però gli antidepressivi senza ricetta non te li vende e quindi tanto vale. Si opta per lavaggio di mani e pipì, il tutto tra water alternati e lavabi a scacchiera.

Arriva l’ora dell’imbarco e a quel punto non c’è Covid che tenga: l’assalto alla diligenza si ripropone come ai bei vecchi tempi quando si volava senza restrizioni. Non importa che i posti siano assegnati: l’imperativo è arrivare primo, costi quello che costi.

Pavide nonnine si trasformano in guerriere ninja, Bruce Lee si reincarna in vecchietti malfermi, giovani mamme usano il passeggino del bebè come un ariete.

Alla fine si sale tutti sul bus, belli vicini vicini, in attesa di ripetere la carica sotto la scaletta dell’aeroplano.

Tutto finito? Macché; si vola pressati come sempre ma col viso coperto, il che è un vantaggio visto che almeno eventuali alitosi del vicino riguardano solo lui.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

Potrebbe interessarti anche:

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
CAPITALE CULTURA
UNICHIMICA