30 Aprile 2016 - 19.26

EDITORIALE- Il PD e la grana corruzione, Renzi fa il pesce in barile

Matteo+Renzi+-+furbetto

di Marco Osti

Un nuovo macigno giudiziario piomba in mezzo alla campagna elettorale per le elezioni amministrative che si svolgeranno il prossimo 5 giugno.
In un’operazione che ha visto l’arresto di nove persone con l’accusa di corruzione aggravata, emerge tra gli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa il presidente del Partito Democratico in Campania Stefano Graziano, già parlamentare e consulente a Palazzo Chigi del Governo di Enrico Letta e poi di Matteo Renzi, che subito ha voluto chiarire di avere interrotto tale collaborazione poco dopo il suo insediamento.
Una presa di distanza che comunque non cancella il coinvolgimento di un esponente di rilievo del Pd in Campania, in una vicenda in cui i magistrati prefigurano uno scenario di voti di scambio e favori, nell’ambito delle elezioni nel comune di Santa Maria Capua a Vetere e rapporti con un imprenditore vicino al clan degli Zagaria.
Una ipotesi accusatoria che naturalmente andrà verificata, per la quale Graziano potrebbe risultare innocente, ma della quale è innegabile la portata politica, in un clima pre elettorale che giorno dopo giorno diventa sempre più intenso.
La portata della vicenda infatti non si limita alla sola regione, peraltro guidata da un esponente di spicco del Pd come Vincenzo De Luca, ma è presumibile avrà ripercussioni a livello nazionale e su tutta la campagna dei partiti per le elezioni amministrative, previste in 1.370 comuni italiani, di cui i più importanti sono naturalmente Milano, Napoli, Roma e Torino, ai quali si aggiungono, tra i capoluoghi di provincia, Bologna, Cagliari e Trieste.
Milioni di elettori chiamati alle urne per votare sindaci e consiglieri comunali, che allo stesso tempo daranno indicazioni sul consenso ai partiti in ottica di future elezioni politiche, con il chiaro intento delle opposizioni di attribuire alla consultazione un implicito giudizio su Matteo Renzi e sul suo Governo.
Non a caso Piero Fassino, candidato a un nuovo mandato come sindaco di Torino ha cercato di riportare l’esito delle urne a un alveo comunale, dicendo che “il voto non è un referendum su Renzi”.
Concetto ripreso anche dal primo cittadino uscente di Milano, Giuliano Pisapia, che si è rivolto al Movimento 5 Stelle, ammonendolo sul fatto che non si vota sul Pd.
Il fatto che due esponenti così importanti del centrosinistra siano portati a sottolineare quello che dovrebbe essere ovvio, significa che sempre più le elezioni amministrative stanno assumendo una rilevanza ulteriore rispetto alla loro reale portata.
In questo scenario quanto accaduto in Campania diventa quindi un fattore che può essere determinante, non solo per le elezioni in questione, ma per lo stesso Renzi e per tutto il Pd.
Infatti Graziano, prima di autosospendersi, ricopriva la carica di presidente del partito in Campania, un ruolo che di fatto pare avere una valenza solo nominalistica e non statutaria, ma in ogni caso richiama quello invece ben definito di presidente del Pd nazionale, ricoperto da Matteo Orfini.
Come se Graziano fosse il delegato in regione di questa figura di riferimento del partito. Così fosse, allora il suo peso politico assume una connotazione ben più consistente di un semplice ex collaboratore di Palazzo Chigi, scaricato da Renzi una volta diventato premier.
Serve quindi innanzitutto che il Pd faccia chiarezza ed è necessario in primo luogo per se stesso e per tutti i suoi candidati nei comuni sotto elezione, che potrebbero altrimenti essere coinvolti in una questione per cui non hanno responsabilità diretta.
La vicenda in ogni caso si configura come un ennesimo elemento di confusione determinato dal fatto che il presidente del Consiglio è anche segretario del partito.
La divisione delle cariche consentirebbe oggi di lasciare il Governo fuori da questa vicenda, nella quale invece viene coinvolto dalle opposizioni, che hanno tutto l’interesse a mettere in atto questa strategia e anche gioco facile a perseguirla.
Del resto questo è solo l’ultimo esempio di come la commistione di ruoli possa produrre pericolose derive.
Pochi giorni prima c’era stato il caso delle critiche del presidente dell’Associazione Magistrati Piercamillo Davigo a una classe politica che non riesce a restare lontana dalle tentazioni della corruzione e del malaffare.
Parole forti, per qualcuno eccessive, alle quali Renzi ha risposto in modo piccato.
Purtroppo per il premier quanto accaduto in Campania però evidenzia che il problema sollevato da Davigo esiste e richiederebbero una discussione seria e approfondita, in cui il Pd dovrebbe essere parte determinante quale partito di maggioranza.
Però sul tema Renzi si è, come detto, già espresso, e non sappiamo se l’abbia fatto da presidente del Consiglio o da segretario del partito.
Anche in questo caso l’accumulazione delle cariche appare quindi un limite e denota la necessità di un segretario, che sia garante dell’indipendenza del Pd dall’azione di Governo e ponga il partito nella condizione di essere stimolo per l’esecutivo a fare meglio e non mero certificatore in Parlamento delle scelte assunte da Renzi e dai suoi ministri.
Il premier però pare non avere alcuna intenzione di mollare la carica e sembra, come sua abitudine, del tutto disinteressato a opinioni divergenti dalle sue convinzioni, sebbene la preoccupazione evidentemente stia crescendo, vista la convocazione dell’assemblea del Pd per il prossimo 5 maggio.
L’ennesimo momento di discussione interna a un partito, chiamato, alla vigilia di elezioni importanti, a gestire un tema delicato come la questione morale, vissuto negli ultimi anni quale punto di riferimento politico e operativo, che oggi rischia di alimentare le già note divisioni interne.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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