1 Febbraio 2021 - 10.05

Serie TV – La regina di colore e le manipolazioni storiche insensate del color-blind casting

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di Umberto Baldo

Immagino che molti di voi, viste anche le limitazioni imposte dalla pandemia, durante le feste natalizie abbiano passato qualche ora in più davanti alla televisione.
Magari seguendo la fiction che si è rivelata come un successo planetario: Bridgerton. Presentata come il regalo di Natale di Netflix ai suoi abbonati.
Anch’io non mi sono sottratto a questa visione, ma a dirvela tutta non sono riuscito ad andare oltre la prima puntata.
Il motivo è che si tratta di un genere che non amo particolarmente, perchè, comunque la si veda, alla fine Bridgerton rappresenta la cultura del romanzo rosa. Un “Harmony”, per citare la celebre collana di libri che imperversò in Italia negli anni ’80, e che realizzò livelli di vendita strepitosi.
Non voglio darvi l’immagine del finto intellettuale che storce il naso di fronte a certi programmi “non impegnati”, ed è lungi da me l’idea che le serate televisive debbano essere monopolizzate solamente da programmi “culturali”.
Ben vengano quindi i feuilleton punteggiati da famiglie facoltose, inganni di corte, costumi e location principesche, nudi parziali, battutine ciniche, trionfi di crinoline, busti, pizzi e merletti. In fondo queste soap opera hanno il contenuto dei sogni, e se il pubblico ama sognare, è giusto che possa farlo.
Ma relativamente a Bridgerton è un altro l’aspetto su cui voglio attrarre la vostra attenzione.
Quello che, nella fiction, la regina d’Inghilterra è chiaramente di colore. Per la precisione, ha la pelle d’ambra dell’attrice anglo-guyanese Golda Rosheuvel, e di colore è anche il duca di Hastings, miglior partito della Londra di re Giorgio, impersonato con indiscutibile prestanza dall’ attore anglo-zimbabweano Regé-Jean Page.
Quando ho visto questi personaggi, e non sono i soli, non vi nascondo che sono rimasto alquanto perplesso, perchè non riuscivo veramente ad immaginare che il Duca di Hastings (località nota per essere stata il teatro della famosa battaglia che nel 1066 vide lo scontro fra il re d’Inghilterra Aroldo II, anglosassone, ed il Duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore) potesse avere un colore di pelle diverso dal bianco pallido, tendente al rossiccio, tipico degli inglesi.
Una forzatura degli autori della fiction?
Assolutamente no, in quanto Bridgerton non è altro che la conferma di una scelta, quella di applicare il cosiddetto color-blind casting.
Se non ne avete mai sentito parlare, il color-blind casting è la scelta di premiare i valori della diversity e dell’inclusione nella selezione degli interpreti di un film o di una fiction.
E ciò indipendentemente da ogni criterio di aderenza alla realtà storica, e dalla verosimiglianza fisica con i personaggi che si muovono in scena.
In parole povere non ha più importanza l’etnia o il colore della pelle di un personaggio, come pure il genere o l’orientamento sessuale.
E badate bene che non si tratta di scelte estemporanee di autori o registi “progressisti” o “dissacratori”, ma di regole ben precise che sono state addirittura codificate nel regolamento per gli Oscar pubblicato nel 2020, e che saranno applicate a partire dalla 96° edizione nel 2024. Ma già negli anni 2022 e 2023 ai registi sarà richiesta la compilazione di appositi moduli in cui dovranno essere specificate le percentuali di personale appartenenti a categorie considerate discriminate.
Cosa stabiliscono queste nuove regole?
In breve, che se i registi non vorranno essere eliminati dalle nomination per il miglior film, dovranno rispettare alcuni standard, come quello che almeno uno degli attori protagonisti, o non protagonisti ma di primo piano, deve appartenere a una minoranza etnica.
E per non lasciare spazio a dubbi, queste minoranze vengono anche elencate: “asiatico, ispano/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo dell’Alaska, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, o altre etnie”. Se proprio non si dovesse riuscirci, “almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da due dei seguenti gruppi sottorappresentati”, cioè “donne, minoranze razziali, Lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer), persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito. Terza possibilità, “la storia principale dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati”.
Insomma, per essere “in regola”, e poter così aspirare alla mitica statuetta dorata, è indispensabile che nei film o nelle fiction si parli di donne, di minoranze, di disabilità, di tematiche omosessuali, e che fra i protagonisti queste categorie siano ben rappresentate.
E’ evidente che il problema non si pone quando si trattano storie contemporanee, perchè la globalizzazione ha abbattuto, almeno a parole, molti steccati, e da anni è usuale incontrare per le nostre strade uomini e donne di tutte le etnie.
Ma diverso è quando si mettono in scena film o fiction di carattere storico.
Lungi da me qualsiasi tentazione razzista od omofoba, ma in certi casi applicando le “regole di Hollywood” si rischiano evidenti forzature, inesattezze, se non veri e propri stravolgimenti della realtà storica.
Penso ad esempio ad una storia ambientata all’epoca dell’epopea vichinga, tipo “Vikings” trasmessa sempre da Netflix, in cui la vedo dura assegnare ad esempio la parte di Ragnar Lothbrok ad un attore di colore.
E non si tratta di non voler aderire al politically correct ormai imperante, ma semplicemente prendere atto che nel 790 d.C. nei villaggi dei fiordi norvegesi, o ai remi delle navi lunghe dei vichinghi, era semplicemente impossibile che ci fossero persone che non fossero di pelle bianca, alte e bionde.
Fingere di non vedere il colore della pelle degli attori non è solo ingenuo, ma è per certi versi anche dannoso, almeno se si vuole rimanere aderenti alla realtà storica.
La riprova di come il “vento Hollywoodiano” stia ormai soffiando con forza la si trova anche nella serie televisiva (sempre Netflix) sulla guerra di Troia, in cui a vestire i panni dell’eroe omerico Achille, mitologicamente noto appunto per la “bionda chioma”, è infatti David Gyasi, attore inglese di origini ghanesi. E non è l’unico caso che balza all’occhio. Accanto a lui, fedele amico e amante, troviamo infatti l’attore nero sudafricano Lemogang Tsipa nel ruolo di Patroclo. E poi ancora, quasi un sacrilegio per i puristi, è interpretato da un attore di colore anche Zeus, il padre degli dei, nonché il leggendario pro-genitore dei Romani, Enea: a vestire i loro panni, infatti, sono rispettivamente l’anglo-nigeriano Hakeem Kae-Kazim e Alfred Enoch, anglo-caraibico.
Manipolazioni storiche e culturali che, a mio avviso, finiscono per mettere in evidenza differenze che differenze non sono, almeno per chi pensa giustamente che in realtà “siamo tutti di colore”, sia pure diverso.
Per non dire che certe “forzature” non sono poi così educative come sembra, perchè i nostri ragazzi che studiano ad esempio l’Iliade o l’Eneide, opere che fortunatamente ancora non hanno subito la revisione imposta dal politically correct, vedendo la fiction sulla guerra di Troia con attori di colore, potrebbero incorrere in qualche smarrimento.
Molto banalmente io credo che ogni estremismo sia dannoso.
Ed un fenomeno analogo lo abbiamo vissuto ad esempio anche nella nostra lingua, nella quale lo spazzino è diventato operatore ecologico, il bidello operatore scolastico, un nano un diversamente alto, un calvo un tricologicamente privo, e così via.
Mettendo al bando termini della lingua italiana usati per secoli e secoli, e finendo per imporne altri talvolta ridicoli.
Per certi versi siamo tutti vittime di un nuovo puritanesimo, e per quanto riguarda Hollywood di un qualcosa che a mio avviso assomiglia al maccartismo.
Anche perchè fare finta che non vi siano differenze non cancella le differenze, semmai fa uno sfregio delle lotte di chi quelle diseguaglianze le ha combattute per perseguire obiettivi di parità. Il vero obiettivo da raggiungere non è l’invisibilità dei colori, ma la loro accettazione ed inclusione.
Pensate solo che Fausto Leali in questa fase non avrebbe potuto titolare così la sua bellissima canzone ”Angeli negri”, ed Edoardo Vianello avrebbe dovuto cambiare il verso della sua canzone “I Watussi” da “Siamo i Watussi… gli altissimi negri” in “Siamo i Watussi… gli altissimi uomini di colore”.
Tornando a film e fiction, io spero sempre in qualche forma di resipiscenza almeno in quelli di contenuto storico, e mi auguro quindi di non vedere un giorno Giulio Cesare o Napoleone interpretati da attori di colore. Altrimenti, per parità, dovremmo chiedere che in una fiction dedicata alla lotta contro la segregazione razziale, la parte del reverendo Martin Luther King sia assegnata ad un attore di pelle bianca.
Umberto Baldo

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