30 Gennaio 2024 - 8.45

Dopo 33 anni Beniamino rivede il cielo da uomo libero. Quanti soldi vale una vita?

Il noto giurista-filosofo austriaco Hans Kelsen, ponendosi la domanda: “Cos’è la Giustizia?” si rispondeva “E’ una di quelle domande alle quali l’uomo si è consapevolmente rassegnato a non poter mai dare una risposta definitiva, ma solo a formulare meglio la domanda stessa”.

Quindi non stupitevi se non oso neppure addentrarmi in una disquisizione su cosa sia la Giustizia, non solo perché non credo di esserne all’altezza, ma soprattutto perché se ne dibatte dalla notte dei tempi, da quando l’uomo ha cominciato a pensare e a vivere in società con un minimo di organizzazione, senza mai arrivare, come dice Kelsen, ad una risposta che sia del tutto esaustiva e convincente. 

Mi sono posto il problema, partendo anch’io da una domanda: cosa farei se per caso mi trovassi faccia a faccia con Beniamino Zuncheddu?

E’ un nome che, se non avete letto le cronache di questi giorni, non vi dice assolutamente niente; è un “signor nessuno”, al quale però è stato sottratto in nome della Giustizia il bene più prezioso che un uomo possa avere: la propria libertà.

Per chi non conosca la vicenda la riassumo in due parole: Beniamino non aveva ancora compiuto ventisette anni quando le porte della casa circondariale di Badu’e Carros si sono chiuse dietro di lui con la terribile eco delle parole “fine pena mai”.

E ha passato chiuso fra quattro mura ben 33 anni, senza poter usufruire di nessun istituto premiale previsto dalla legge perché ha sempre dichiarato di “essere innocente”, di non aver commesso il reato per il quale era stato condannato all’ergastolo.

Venne accusato di aver ucciso tre pastori grazie ad un riconoscimento (adesso lo si è finalmente chiarito anche in giudizio, ripeto dopo 33 anni) “indotto”, diciamo così, da un agente di polizia che indagava sul caso.

Un errore giudiziario, il più lungo della storia della Repubblica, costellato, a quanto è dato sapere, da ritrattazioni, depistaggi, false testimonianze, ostinazione a mantenere un impianto accusatorio segnato dal pregiudizio.

Il suo caso, liquidato dalle cronache giudiziarie, venne ovviamente dimenticato, ed è solo grazie all’ annoso ed instancabile impegno di poche persone, fra cui i familiari, i suoi concittadini, ed un giovane avvocato che ci ha creduto,  che la “Giustizia” ha dovuto riconoscere di aver sbagliato.

Rispondendo alla mia domanda: cosa gli direi?   

Probabilmente niente, lo guarderei negli occhi, lo abbraccerei, e lo ringrazierei per la sua mitezza, per la severità di queste parole con cui ha commentato la fine della sua vicenda: “Non provo rabbia, perché sono vittime anche le persone che mi hanno accusato. Non è colpa loro, ma del poliziotto, che fa parte della giustizia, dell’ingiustizia”.

Badate che non è mia intenzione accusare in alcun modo la Magistratura, che sicuramente ha giudicato correttamente sulla base di prove artatamente false.   

D’altronde io sono convinto che un’azione di delegittimazione dell’Apparato Giudiziario avrebbe come esito solo il dare spazio alla “giustizia del più forte”.

E non deve, non può essere così, perché i forti, i ricchi, hanno sempre avuto i mezzi per difendersi adeguatamente; ma la Giustizia, quella vera, deve essere rivolta alla tutela del più povero, del più emarginato, dal più abbandonato. 

In fondo, a volerla vedere senza particolare animosità, questa vicenda conferma che l’espressione “Ci sarà un giudice a Berlino”, il che equivale alla speranza di un giudice imparziale, in fondo ha un po’ di fondamento; peccato per Beniamino che per incrociare “quel Giudice” ci siano voluti ben 33 anni di carcerazione ingiusta.

Zuncheddu, ovviamente contento per il riconoscimento di quell’innocenza da lui urlata per 33 anni, ha anche detto: “Si, mi hanno liberato, ma oggi sono poco più di un cadavere”.

Da queste parole, dai suoi occhi miti, dalla sua postura dimessa, dalla sua immagine un po’ impacciata all’uscita del carcere con in mano le solite borse che contengono quel poco che può avere un detenuto, dobbiamo partire.

Perché, passando al giusto risarcimento che lo Stato deve a Beniamino, non posso non chiedermi: “ma quanti soldi vale una vita?”.

Quanti soldi vale aver negato ad un uomo i suoi sogni?

Sogni così da lui espressi “Desideravo avere una famiglia, costruire qualcosa, essere un libero cittadino come tutti. Trent’anni fa ero giovane, oggi sono vecchio. Mi hanno rubato tutto”.

Il vero problema è che un caso del genere potrebbe capitare a ciascuno di noi.

I casi di cittadini incarcerati e poi assolti con formula piena sono troppo frequenti nelle cronache.

E se siete interessati, e volete sapere nel dettaglio i numeri (e sono numeri agghiaccianti), basta che accediate al sito www.errorigiudiziari.com l’Associazione che da oltre 25 anni approfondisce il fenomeno in Italia, grazie al lavoro dei due giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone.

Ma in ogni caso provate per un momento solo a immaginare di dover passare la maggior parte, meglio la parte migliore della vostra vita, da innocenti all’interno di un pozzo profondo, di un buco nero, di un abisso insensato.

Il problema è che agli onori delle cronache salgono solo i casi o eclatanti come quello di Zuncheddu (33 anni di ingiusta reclusione), oppure quelli di personaggi noti.

Come dimenticare Enzo Tortora, forse il più tristemente noto caso di errore giudiziario in Italia.

“Ricordati figliolo che la Giustizia non è di questo mondo” recita Papa Pio VII nel film “Il marchese del Grillo”, e anche sulla scorta della mia formazione giuridica mi è nota la differenza fra “giustizia” e “diritto positivo”, fra quella che alcuni definiscono la “verità processuale”, tenendola distinta dalla “verità tout court”.

E analogamente so bene che un errore giudiziario è sempre possibile, proprio perché “la Giustizia non è di questo mondo”. 

Ma vi confesso che in questa occasione mi sarebbe piaciuto che l’Associazione Nazionale Magistrati, la Politica tutta (e non come al solito il solo Partito Radicale), il Capo del Governo, il Presidente della Repubblica, e anche la Stampa nel suo complesso, chiedessero scusa, a nome di tutto il “Sistema”, all’ex pastore sardo Beniamino Zuncheddu, scusa per quei 12.045 giorni e notti che ha dovuto trascorrere da innocente fra le quattro mura di una cella, al caldo, al freddo, fra angosce e rimpianti, in un Calvario infinito.

Già, perché Beniamino forse avrà anche qualche milione di euro di risarcimento (almeno lo si spera), ma non avrà mai più indietro la sua gioventù, la sua vita.

E’ impossibile ridargli ciò che gli è stato tolto, ma consola il fatto che adesso potrà curare i suoi malanni, guardare il sole ed il cielo, respirare l’aria della sua casa,   e vivere gli anni che gli saranno ancora concessi dalla Provvidenza, a testa alta, da innocente, da uomo libero.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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