11 Febbraio 2020 - 9.36

Sanremo Freak Show

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Di Alessandro Cammarano

Il rito laico più seguito e amato dal popolo italiano si è compiuto anche quest’anno: il Festival di Sanremo chiude i battenti e va a riposo fino alla prossima edizione. Ufficialmente nessuno lo guarda – alcuni snob inorridiscono al solo nominarlo, pensando che denigrare l’italica kermesse faccia “intellettuale” – ma a giudicare dagli ascolti, mai alti come questa volta, possiamo dire che è stato un successo oltre ogni più rosea aspettativa.

C’è da chiedersi perché, però, visto che il livello è stato tra i più bassi di sempre.

Amadeus, chiamato alla direzione artistica dopo gli anni di Claudio Baglioni – che aveva scambiato il Festival per una sorta di “Amarcord” suo personale cantando più di qualunque altro artista sul palco – è bravino, corretto, educato ed eccitante come una tisana di passiflora.

Per fortuna arriva Fiorello in suo soccorso e tutto più o meno si incammina su binari sicuri. L’intervento di Rula Jebreal – vittima di una becera contestazione preventiva che aveva messo in forse la sua partecipazione – è dirompente nella sua analisi appassionata sulla condizione delle donne; Benigni è sempre Benigni, prendere o lasciare: noi prendiamo. Brilla l’assenza di ospiti stranieri ma abbonda l’ostensione di mummie nostrane: i Ricchi e Poveri in versione “reunion” farebbero tenerezza se non facessero rabbia con il loro playback. Al Bano – ma col cappello ci va pure a dormire? – è oramai l’incrocio tra un vecchio “cantaór” di flamenco e un muezzin che ha fatto tardi la sera prima, mentre Romina è sempre uguale a se stessa, ovvero canta malissimo. Un altro che canta malissimo è Tiziano Ferro: irriconoscibile, teso e purtroppo stonato. Tra gli artisti in gara Tosca avrebbe tutte le carte in regola per aggiudicarsi la vittoria, canta bene, è un’artista vera, la canzone è bella davvero; ma viene snobbata. Vince Diodato, che ha la vitalità di un foglio di carta assorbente e il carisma dell’animatore di un villaggio vacanze palustre. Almeno ci mette una condivisibile esternazione sulla situazione tragica in cui versa la sua Taranto.

Secondo si piazza Francesco Gabbani – quello del gorilla – che ha la coerenza di cantare sempre la stessa canzone, un po’ come Enrique Iglesias.

Terzi si classificano i Pinguini Tattici Nucleari, gruppo divertente che al posto della “vecchia che balla” indossa occhiali da sole a stella, e che che – come altri gruppi “divertenti” – tengono meravigliosamente il palco con una canzone fatta di tre parole e tre note e che sarà sicuramente il tormentone della prossima estate. La palma delle giovani proposte va a Leo Gassman, figlio e nipote d’arte, bello e capace di portare un soffio di educazione sul palco. Il resto è folklore quando non freak-show.

Morgan fa a borsettate con Bugo – ma chi è Bugo? – facendo squalificare entrambi e Rita Pavone, che ad onor del vero ha ancora una canna notevole, sembra posseduta da un collettivo di demoni assortiti e tutti sovranisti.

Due sono i trionfatori veri di questo Festival: uno è l’Autotune e l’altro è Achille Lauro, che meriterebbe un capitolo a sé. Il ragazzo dal volto tatuato ha equamente diviso il pubblico e la critica: chi lo ama – e tra questi molti acculturati – sostiene che le sue provocazioni stigmatizzino il maschilismo più gretto e deteriore da sempre imperante nella cultura popolare. Chi non lo ama lo definisce semplicemente una pazza travestita. La verità è probabilmente nel mezzo: Achille Lauro è un eccellente preformer ottimamente indirizzato e guidato da un genio della comunicazione. Se ho la certezza che il ragazzo conosca chi è Ziggy Stardust, e forse anche Elisabetta Prima, non nutro la medesima sicurezza sul fatto che sappia qualcosa della marchesa Casati-Stampa. Vabbè, ci consoliamo con la tutina della prima sera, quella che a J-Lo stava assai meglio la sera del Super Bowl, e che andrebbe indossata con un sospensorio perché sennò il segno degli slip si vede. Per me comunque ha vinto lui.

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