10 Ottobre 2019 - 12.35

Perché i Veneti sono diversi dai ‘foresti’

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Stefano Diceopoli

Dopo aver letto il mio editoriale sul come gli altri vedono noi Veneti, un lettore mi ha scritto chiedendomi: Ma i veneti come guardano gli altri? Con quali filtri o stereotipi?
Una domanda da far tremare le vene ai polsi.
Perché a mio avviso, per comprendere appieno il “sentire” dei veneti, bisogna inevitabilmente partire dall’Europa delle “piccole patrie”.
L’Europa è costellata di partiti, sigle e movimenti che puntano a veder riconosciuta ai loro territori qualche forma di autonomia.
Catalani, baschi, abitanti delle Canarie, ritengono di avere poco in comune con gli spagnoli castigliani.  Così come gli scozzesi e gli Irlandesi cattolici dell’Ulster con gli inglesi, ed i còrsi con i francesi continentali. Fiamminghi e valloni cercano da sempre di dividere il Belgio.  E non crediate che, anche dove non ci sono tendenze separatiste vere e proprie, le cose siano poi così diverse: ad esempio i bavaresi hanno ben poco da spartire con i “prussiani” della Sassonia, del Brandeburgo o della Pomerania.
Parto da qui perché, fuori da ogni metafora, ed al di là di ogni infingimento, io credo che in generale i veneti vedano e percepiscano gli altri italiani come “foresti”, termine però che non deve essere necessariamente inteso come negativo, in quanto di per sé non esprime tendenze razziste o xenofobe.
Sentimento che trovo sublimato in queste parole dello scrittore vicentino Goffredo Parise: “Il Veneto è la mia patria. Sebbene esista una Repubblica Italiana, questa espressione astratta non è la mia Patria. Noi veneti abbiamo girato il mondo, ma la nostra Patria, quella per cui, se ci fosse da combattere, combatteremmo, è soltanto il Veneto. Quando vedo scritto all’imbocco dei ponti sul Piave “fiume sacro alla Patria”, mi commuovo, ma non perché penso all’Italia, bensì perché penso al Veneto”.
Dalla mitologia del tanko, che i “serenissimi” portarono in Piazza San Marco, alla rivolta dei forconi del 2013, fino al plebiscitario referendum sull’autonomia, sono tutti episodi che testimoniano il “sentire profondo” del Nord Est.
Quindi, a mio avviso, non ha molto senso soffermarci sugli stereotipi secondo cui i Veneti percepirebbero i romani come pigri e corrotti, i napoletani come mangiatori di pizza e sfogliatelle, scansafatiche e camorristi, i calabresi ed i siciliani come n’dranghetisti e mafiosi, gli emiliani come comunisti, allegri e mangioni, i toscani come simpatici ma arroganti, i sardi come chiusi ed isolati, e via così per gli abitanti di tutte le altre Regioni.
Su questo piano siamo e restiamo nell’ambito dei luoghi comuni.
La realtà è che la percezione più diffusa fra i nostri conterranei è di essere “diversi” dagli altri italiani.
Intendiamoci, ogni generalizzazione è sempre sbagliata. Ogni veneto ha sicuramente amici originari di altre parti d’Italia, che stima, apprezza, e con cui sta bene insieme.  Ed io conosco molte persone native di altre regioni italiane che sono venute ad abitare in Veneto, si sono integrate perfettamente, e si trovano bene in terra di San Marco.
Come pure va messo in conto che le percezioni sui “foresti” sono diverse ad esempio fra località come Venezia, Padova, Verona, Vicenza, città in qualche modo cosmopolite, ed altre parti del territorio veneto.
Per penetrare a fondo certi sentimenti bisogna a mio avviso voltare le spalle alla Serenissima ed ai suoi miti, per addentrarsi nella terraferma.  In quel paesaggio senza centro e senza periferia, solcato da fiumi e torrenti, caratterizzato da un susseguirsi senza soluzione di continuità di capannoni, villette, centri commerciali, rotonde, campagne. Per capirci, in quel pentagono compreso fra Venezia, Treviso, Bassano del Grappa, Vicenza e Padova. 
In quel Veneto profondo, in cui più ha messo radici il venetismo, fondato sulla presunta “diversità” dei veneti rispetto agli altri italiani, e che a mio avviso avrà qualche difficoltà a comprendere la “conversione” della Lega di Salvini in partito nazionale “italiano”.
E’ questa l’area che è stata protagonista della rivoluzione economica del “nord est”, e girare per queste terre equivale a fare un giro nell’ “anima” profonda dei Veneti, che hanno fatto del lavoro quasi una religione, ed un mito dell’ “ognuno padrone a casa propria”.
Ma quali sono i fattori che hanno determinato questa percezione di “alterità” dei veneti?
Innanzitutto ragioni storiche.  Dal 1400 il Veneto è diventato lo “Stato de tera” della Serenissima Repubblica di Venezia, che ha sempre lasciato una notevole autonomia a questi territori, preferendo concentrare forze ed energie sullo “Stato da mar”.  Con la caduta di Venezia il potere locale si trasferì nelle mani del notabilato e della Chiesa, accentuando così un sentiment antistatale e localista, ed una diffusa ostilità al potere centrale, si chiamasse Venezia o Roma.
Dopo secoli di estrema povertà ed endemica emigrazione, nell’ultimo dopoguerra esplose il “miracolo economico veneto”, che pur obbligando i nostri imprenditori a confrontarsi sui mercati mondiali, non scalfì la sostanziale chiusura all’esterno della società veneta.
E non è un caso quindi se il Veneto è ancor oggi un “gigante economico”, ma un “nano politico”.
Inoltre, gioca ancora molto, a mio avviso, anche la questione della “lingua”.
Per chi arriva in Veneto da fuori, i “foresti” appunto, i primi incontri con gli autoctoni sono momenti di incomprensione, che spesso si risolvono in facce dubbiose e gag comiche.
Ricordo che un medico di origine siciliana mi disse che, all’inizio, il vero problema con i pazienti veneti era capire i sintomi delle malattie.  E mi riferiva ad esempio che dovette sudare sette camicie per capire di cosa potesse soffrire un paziente che riferiva che nello stomaco gli sembrava di avere le “catarìsole”.
In Veneto è normale sentire parlare in dialetto. Il panettiere, l’oste, il vigile urbano, la signora di mezz’età nelle situazioni quotidiane parlano la lingua nella quale si sentono più a proprio agio; e questa lingua spesso non è l’italiano.
Il dialetto veneto, o la lingua veneta se preferite, non è, come in altri ambiti, la lingua del popolo.  E’ la lingua di tutti, dal medico al farmacista, dal professore universitario al politico. 
Diventando così un tratto distintivo di un popolo, ma anche una barriera per chi non è in grado di parlarla.
I dati dell’ultimo rapporto ISTAT, del dicembre 2017, confermano che il Veneto rimane, tra le regioni del nord, quella in cui il dialetto è più utilizzato in famiglia (62%). Confermando inoltre che il dialetto è fondamentale nella vita di ogni giorno, dal dialogo con il negoziante  a quello con il benzinaio, fino ad arrivare alle ciàcole tra colleghi in sala insegnanti, non solo con i veneti, ma anche con i “foresti”.
E non oso neppure pensare a come un “foresto” potrebbe capire il senso dell’espressione “i gà igà i gai ai pai pai poi”, che anche se può sembrare una frase in cinese mandarino, è un antico detto trevigiano che significa “hanno legato i galli ai pali per i polli”.
Tentando di tirare le fila del nostro ragionamento, è evidente che se è vero, come penso, che in generale i veneti considerano gli altri italiani come “foresti”, questi ultimi difficilmente ne possono comprendere le motivazioni.
Che trovano origine anche nel fatto che la stragrande maggioranza dei veneti è convinto di dare allo Stato italiano molto più di quel che viene loro restituito.  E’ un sentimento che coinvolge i veneti in modo trasversale rispetto all’appartenenza politica e anche all’età, e da qui deriva la percezione diffusa di vivere in una condizione di crescente separatezza dal resto del Paese.
Sarebbe un grave errore per i “foresti” non ascoltare un malessere così profondo ed articolato.
E questa è una questione politica, non di stereotipi!

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