9 Aprile 2021 - 17.54

L’Italia delle chiese piene e dei teatri vuoti

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di Alessandro Cammarano

Chiese piene e teatri vuoti

Siamo tutti uguali? Sicuramente no. Si fanno quasi sempre due pesi e due misure? Certamente sì e il trattamento riservato agli spettacoli dal vivo e più in generale alla cultura ne è plastica rappresentazione.

È oramai più di un anno che i luoghi deputati allo spettacolo – siano essi teatri, cinema, auditorium o piccole sale da concerto – vedono precluso lo svolgimento delle loro attività a causa del perdurare dell’emergenza pandemica e delle conseguenti, necessarie e sacrosante, misure di prevenzione adottate con criteri troppo spesso non improntati all’uniformità.

Nascono dunque disparità di trattamento tanto odiose quanto francamente incomprensibili e di cui fanno le spese centinaia – ove non migliaia – di lavoratori che da mesi devono fare i conti con la quotidianità; non finiremo mai di ripeterlo: con il teatro, la musica e l’arte si mangia e si dà da mangiare non solo allo spirito e ci si pagano le bollette e i libri di scuola per i figli.

Il virus, secondo un sentire comune, parrebbe attaccare forsennatamente i teatri – chiusi – fermandosi invece subito fuori dei portoni dei luoghi di culto aperti e frequentatissimi con i dovuti distanziamenti e lavacri di gel igienizzante che ha di fatto sostituito l’acqua benedetta.

Perché tutto ciò? In base a quale protocollo si è deciso che le chiese sì e i cinema no? Non si stratta sempre e comunque di nutrimento dello spirito? Sono blasfemo? Può darsi, ma il dover vedere quasi quotidianamente luoghi di culto aperti e dover leggere di violinisti importanti costretti a vendere i loro strumenti per pagare il mutuo mi indigna non poco.

Lo si è già scritto ma giova ribadirlo: non esistono solo cantanti, attori e musicisti famosi; ci sono legioni di onesti e appassionati professionisti, di tecnici, di costumisti e scenografi che hanno disperatamente bisogno di lavorare.

Anche nell’ambito della musica cosiddetta leggera i grandi e i famosi sopravvivono grazie alla SIAE e ai passaggi in radio, le orchestre di liscio, le cover band, i gruppi meno noti fanno la fame anche perché sagre e fiere non ce ne sono e nelle sale da ballo ci fanno le feste i sorci.

Non si può tacere che però un ristretto gruppo di eletti è ammesso, con accorgimenti vari che vanno dall’autocertificazione al tampone rapido all’ingresso, alle registrazioni o alle dirette streaming di opere e concerti per poi darne conto sulla stampa. Di questa ristretta cerchia fa parte anche il sottoscritto nella sua qualità di critico musicale che vive il paradosso di sentirsi allo stesso tempo un privilegiato e un clandestino. La gioia di mettere piede in teatro è grande, ma egualmente grande è il senso di imbarazzo nell’assistere a qualcosa che in televisione o sul monitor del computer ha tutt’altra resa – a volte migliore, a volte no, comunque sempre diversa – e della quale poi si è chiamati a rendere conto. Sinceramente non riesco a condividere la gioia non celata di alcuni colleghi che si ritraggono in solitari palchi nell’attesa dell’ennesima ripresa tv in sale senza pubblico: il teatro è vita e soprattutto armonia di artisti e pubblico, si potrebbe dire in egual misura. Questo è un simulacro di spettacolo.

Eppure – facciamo un po’ gli esterofili – a Berlino si ricominciano a fare concerti a sale quasi piene rispettando una profilassi rigida alla quale il pubblico si sottopone di buon grado e a Barcellona si è svolto un concerto pop con cinquemila spettatori.

Diverso il discorso per il Regno Unito, dove si vaccina a tutto spiano – in massima parte con il tanto vituperato AstraZeneca e per ora a dose unica – e con Londra che riapre con la dovuta circospezione i teatri e le sale da concerto.

Noi, come lo scorso anno, dovremo aspettare l’estate e i festival all’aperto, sperando che per quella data la campagna vaccinale sia definitivamente decollata anche qui; nel frattempo possiamo andare a cantare i Vespri in parrocchia, che lì sì che si può andare.

Alessandro Cammarano

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