12 Agosto 2020 - 10.37

Le festine pre-Covid: quando ci si trovava per il ballo della scopa

Se Dante, Petrarca, e per andare indietro Catullo, avessero avuto a disposizione WhatsApp avrebbero scritto i loro versi immortali per celebrare l’amore per le loro donne?
Avremmo conosciuto le varie Beatrice, Laura, Lesbia, con i turbamenti che suscitavano nei loro spasimanti?
Forse no, e per fortuna questo scenario non si è verificato. Anche perchè ve lo vedete Giacomo Leopardi accanito sulla tastiera a mandare messaggi a Silvia?
Mi rendo conto che questa immagine è un po’ eccessiva, perchè ogni epoca è influenzata dalla tecnologia del momento, e quando si aveva a disposizione solo un foglio di pergamena o di carta, un pennino, ed un po’ di inchiostro, alla donna amata non restava che dedicarle versi, che spesso hanno travalicato i secoli giungendo fino a noi.
Certo non tutti erano in grado di farlo, ma si sa che i poeti sono sempre una sparuta minoranza.
Non c’è alcun dubbio che la tecnologia, ed Internet in particolare, abbiano profondamente cambiato il nostro modo di socializzare, e io ritengo che la telefonia e la Rete siano le vere rivoluzioni dell’ultimo secolo del secondo millennio, perchè hanno innescato un vero e proprio cambio culturale e dello stile di vita.
Come tutte le innovazioni ci sono anche aspetti che non convincono del tutto, ma si tratta dello scotto che sempre bisogna pagare al progresso.
Basta prendere un treno, una metropolitana, un autobus, o anche frequentare i locali affollati per rendersi conto che il nostro sguardo si è letteralmente “abbassato”. Siamo tutti concentrati, quasi rapiti, dai nostri smartphone. Siamo sempre connessi, al punto da perdere i contatti con il mondo che ci circonda. E non ditemi che non è vero, perchè un “ex giovane” come me la prima cosa che fa al mattino appena alzato è sbirciare sullo schermo dell’Iphone per vedere le news della notte, o per controllare se qualcuno gli ha scritto o telefonato. Io la vedo come una forma di dipendenza, magari leggera, ma sempre dipendenza.
E’ chiaro che esiste un approccio diverso, quasi una separazione netta fra i ragazzi di oggi, quelli che gli esperti chiamano “nativi digitali”, quelli cioè che non hanno mai conosciuto un “prima” del Computer e dello smartphone, e quelli più attempati come me che hanno imparato a scrivere alle elementari con il pennino, perchè le prime penne a sfera sono uscite qualche anno dopo.
E per la mia generazione, quella nata negli anni ’50 e ’60, la “socializzazione”, per usare un termine dotto, è stata nettamente diversa rispetto a quella dei millennial, per i quali il rapporto con gli altri si perfeziona sempre più davanti ad una tastiera. Con tutti i fenomeni di isolamento indotto, e conseguente solitudine.
Per me, e per i miei coetanei, il valore aggiunto si chiamava “compagnia”.
C’è da dire che ai tempi dei miei anni verdi eravamo in tanti, in quanto le famiglie con il figlio unico erano l’eccezione.
E diventava naturale che nei piccoli paesi della provincia veneta, come quello in cui sono nato e cresciuto, il tempo libero lo si passasse costantemente “insieme” ai coetanei.
Non c’erano le possibilità di oggi, ma questo non influiva minimamente sulla capacità di divertirsi, sottolineo “insieme” agli altri.
Queste compagnie erano numerose, e la frequentazione derivava generalmente dal fatto che si era compagni di scuola.
E si trattava di amicizie vere, perchè dopo aver passato la mattina magari nella stessa classe, si aveva ancora voglia di vedersi anche nel pomeriggio e nei giorni di festa o di vacanza.
Si trattava di qualcosa di diverso dalle compagnie solo maschili che avevano nel bar o nel campo di calcio il loro punto di aggregazione, e da quelle solo femminili.
No, eravamo tutti insieme, tutti amici, ragazzi e ragazze, almeno fino ad una certa età, perchè le femmine dopo i 18 anni erano naturalmente portate a cercare legami più solidi e meno “comunitari”, con un singolo ragazzo.
E cosa si faceva di tanto speciale? Ma niente di particolare in realtà.
Ci si trovava, si passeggiava tanto, si discuteva, si scherzava, si cazzeggiava, si andava al cinema.
E le stagioni influivano eccome sui nostri “passatempi”.
In inverno si passeggiava meno e magari ci si riuniva a casa di qualcuno per ascoltare un po’ di musica; in primavera si andava spesso sui colli euganei a godere della rinascita della natura; in estate in una delle piscine della zona termale, e alla sera, perchè no, anche per anguriare; in autunno a rifornirci di “giuggiole” direttamente dalle piante, immaginate con quale “gioia” dei proprietari.
Data l’età ci si spostava in bicicletta, o al massimo in motorino per chi ce l’aveva. E ricordo che all’epoca i controlli erano pressochè inesistenti, per cui la bicicletta era un mezzo promiscuo, nel senso che la canna era molto utilizzata per trasportare un amico, meglio ancora se ad accettare il passaggio era un’amica.
E’ chiaro che con il passare degli anni si arrivava all’età della patente, e quando il papà ti prestava l’automobile si correva a “caricare” gli amici per andare in città, in montagna, su qualche spiaggia, o anche solo a “fare un giro”.
E’ noto che a mettere insieme il fuoco con la paglia qualche incendio bisogna metterlo in conto. Fuor di metafora, è naturale che la continua frequentazione faceva si che in alcuni casi l’amicizia si trasformasse in qualcosa di più, con il risultato che alcuni di noi, fra cui chi vi scrive, si sia alla fine sposato con una delle ragazze della compagnia.
Ma c’era una cosa che faceva rima con “compagnia”, ed era la “festina”, fatta in casa perchè le discoteche sarebbero venute solo qualche anno dopo.
Va spiegato che per fare una festa bisognava avere i locali adatti.
Ed al riguardo si determinava una distinzione sostanziale.
Nel senso che c’erano le festine, di solito quelle di compleanno, che si tenevano nel salone svuotato dei mobili e con le sedie appoggiate alle pareti dell’abitazione del festeggiato o della festeggiata, con buffet abbondanti preparati dalle mamme, e per bere gazzosa, spuma, ginger. Gli alcolici non erano previsti. In queste festine, come dire, “ufficiali”, non erano consentiti comportamenti sopra le righe, perchè nella stanza accanto di solito c’erano i genitori a fare buona guardia, e ad entrare immediatamente per accendere le luci non appena la “sala da ballo” cominciava ad “oscurarsi”, perchè qualche furbetto” mirava a rendere l’atmosfera più “pecoreccia”. E si trattava in genere di genitori usciti dalla guerra, ancora poco propensi ad accettare il cambiamento di quegli anni, né tanto meno che i figli, e soprattutto le figlie, potessero aspirare a ritagliarsi quella libertà che loro stessi non avevano conosciuto.
Altra cosa le festine organizzate dalla compagnia, per cui ogni domenica o festa comandata andava bene, e che si tenevano di solito nelle cantine, meglio se male illuminate. Ricordo ad esempio che la casa dei miei genitori aveva una cantina enorme, con numerosi pilastri che creavano di fatto piccoli locali, in cui ci si poteva appartare in tutta tranquillità. Io l’avevo attrezzata alla grande, con divanetti fatti con cassette di legno ricoperte di cuscini, tendaggi, manifesti e scritte sui muri (mi ricordo un W Mao, che non so chi l’avesse scritto), lampadine a basso voltaggio. Insomma tutto quello che serviva, tanto che, a furia di miglioramenti, divenne in breve un vero punto di riferimento della compagnia, anche perchè per accedervi non era necessario passare per la casa sotto l’occhio vigile dei “grandi”.
Ma c’erano altri ancora più perfezionisti. Il mio amico Enzo aveva una cantina molto più piccola della mia, con un’unica finestra. Prima di ogni festina Enzo ed un altro amico che adesso fa il medico quasi maniacalmente si dedicavano a fissare strati e strati di giornali su quella finestra, con il risultato che, spenta la luce, il buio era assoluto. Capite bene che d’inverno ballare stretti stretti alla luce solo della “lucina” (adesso si direbbe led) del giradischi poteva anche andare bene, ma con il caldo, fra buio e mancanza d’aria, dopo poco sembrava di essere in un girone infernale, con tanto di fumo, quello delle sigarette.
Ma alla fine si stringevano i denti, tanto era l’interesse a ballare, magari con una determinata ragazza.
Non serviva quindi nessuna attrezzatura particolarmente sofisticata per la musica; il più delle volte si trattava di un semplice giradischi che consentiva di ascoltare sia i 45 che i 33 giri. E pazienza se a furia di farli girare i dischi qualche volta saltavano, o la puntina del giradischi graffiava. Non era la qualità della riproduzione quello che interessava ai festaioli.
La dotazione di dischi, ognuno portava i suoi, di solito non era male, con un mix di musica rock e altro. Ma chissà perchè ad essere messi sul piatto erano sempre i soliti, in particolare i cosiddetti “lenti”, molto apprezzati dai maschietti.
In particolare ricordo due canzoni, che quando le risento mi fanno ancora accapponare la pelle: “A whiter shade of pale” dei Procul Harum, e “Je t’aime moi non plus” di Jane Berkin e Serge Gainsbourg.
Erano pezzi durante i quali le coppie si strizzavano tanto che sembravano diventare un tutt’uno.
Ed era in special modo durante questi brani che ci si incazzava quando, nel gioco della scopa, arrivava uno a batterti sulla spalla per prendere il tuo posto con la ragazza con cui stavi ballando. Lei si staccava, tu speravi a malincuore, e stringendo le spalle si metteva a ballare con l’altro. Al quale riconsegnavi subito la scopa, con lo sguardo serio per fargli capire di girare al largo.
Mi rendo conto che ai ragazzi d’oggi questi divertimenti possano sembrare un po’ “ruspanti”, quasi “da sfigati”, usando la terminologia cara ai millennial.
Ma, come dicevo all’inizio, ai tempi della mia giovinezza questo offriva il convento, però in compenso non si era mai soli, si era sempre “in compagnia”.
E questo mi fa pensare che è vero che Internet ha quasi annullato le distanze, ma se l’obiettivo era quello di avvicinare le persone in parte è fallito, perchè a quanto si vede quotidianamente i rapporti personali, compresi quelli dei nostri ragazzi, sono diventati sempre meno diretti, sempre più difficili e freddi, sempre più virtuali e meno reali.
Perchè, considerazione finale, se ai miei tempi uno sguardo od un gesto potevano accendere una scintilla, non penso che gli smartphone siano adatti a trasmettere sentimenti od emozioni.
Di Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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