22 Marzo 2020 - 11.07

La vita e la morte ai tempi del coronavirus

In questi giorni è venuto a mancare un amico fraterno, e il “dopo” mi ha inevitabilmente riportato ad un episodio narrato nei Promessi Sposi noto come “La madre di Cecilia”. 

Per chi non lo ricordasse siamo a Milano nel pieno dell’epidemia di peste, ed i morti venivano prelevati dalle case e dalle strade dai cosiddetti “monatti”, di solito condannati a morte che avevano avuto il morbo e ne erano diventati immuni.  Passando davanti ad una casa il carro dei monatti si trovò davanti una mamma con una figlioletta morta in braccio, e così Alessandro Manzoni descrive quel momento:    “……Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo dintorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a far un po di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’ io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto…….”.

Perdonatemi il raffronto piuttosto forte, ma non è un caso che mi sia soffermato su questo passaggio letterario.

Il mio amico non è morto di coronavirus.  L’attuale pandemia non è assolutamente raffrontabile con le pestilenze dei secoli passati, per un coacervo di motivi che è inutile qui ricordare.  Basti pensare solo per citarne alcuni, alle norme igieniche, alla ricerca farmaceutica, ed alla struttura sanitaria di cui disponiamo oggigiorno.

Ma c’è comunque un punto di incontro, ed è quello che gli antichi chiamavano “pietas”, e che la chiesa cattolica ha tradotto in “culto dei defunti”.

Le norme varate dal Governo hanno come noto proibito tutte le celebrazioni religiose, inclusi i funerali.

Una misura doverosa, per carità, per limitare qualsiasi assembramento e cercare di interrompere la catena dei contagi. 

E si sa che proprio i funerali sono l’occasione per testimoniare cordoglio e vicinanza ai parenti, scambiando strette di mano ed abbracci, in ambienti affollati come sono le chiese.

Giusto quindi il divieto, che ha però l’effetto di cambiare in qualche modo la percezione della vita e della morte, e ciò a causa della sospensione dei riti di sepoltura che accompagnano l’uomo fin dalla notte dei tempi. 

All’inizio dell’epidemia ci colpivano le immagini degli operatori sanitari vestiti di tute antisettiche simili a quelle degli astronauti, dei supermercati presi d’assalto, delle corse alle stazioni, delle strade e delle piazze deserte. 

Con il passare dei giorni e al crescere della diffusione del virus, a queste immagini si sono aggiunte quelle dei carri funebri alle porte dei nosocomi, per arrivare alle colonne dei camion militari utilizzati per trasportare le bare dei tanti morti per coronavirus fuori dalla città di Bergamo. 

Questa lunga catena di morti, nei bollettini quotidiani della Protezione Civile si sono inevitabilmente trasformati in un “numero”. 

All’inizio una “categoria”, quella degli “ultraottantenni con patologie pregresse”, sottolineata probabilmente per contenere il panico nelle generazioni più giovani.    Il messaggio era chiaro; si il virus uccide ma se state bene, se non avete patologie croniche, se avete un’età inferiore ai sessant’anni, potete stare tranquilli. 

Poi i morti sono cresciuti; cento, cinquecento, mille, tremila, quattromila, ed allora coloro che non ce l’hanno fatta sono diventati appunto soltanto numeri. 

Alla fine sono diventati tutti “morti anonimi”, un flusso di uomini e donne avviati alla sepoltura senza funerali, senza gesti, senza preghiere; nel silenzio.

Senza un rito, senza un’ultima parola detta da un pulpito, senza un canto, senza una lacrima versata sulla tomba.

Questo destino accomuna tutti coloro che esalano l’ultimo respiro di questi tempi grami, anche quelli, come il mio amico, che sono morti per tutt’altra causa.   E che come tutti gli altri non sarà accompagnato all’ultima dimora da coloro che lo hanno amato in vita.

La morte ai tempi del coronavirus è se possibile ancora più spietata.

Perchè impedisce quei riti di passaggio che consentono ai superstiti di chiudere una pagina a livello emotivo, di prepararsi al commiato ed al distacco, di iniziare davanti alla bara del loro congiunto od amico la rielaborazione del lutto. 

Senza messa funebre, senza riti, tutto diventa molto più difficile.

Nessuno pensa, ed io sono fra questi, che si debba fare una qualche marcia indietro sull’attuale divieto di celebrare funerali.  La virulenza dell’epidemia, e l’obbligo anche etico di salvaguardare la salute di tutti, lo rendono impraticabile.

Mi piace però pensare che, quando tutto questo sarà finito, e si potrà ritornare a rapporti interpersonali più “umani”, si possa istituire una sorta di “giornata del ricordo” di coloro che, ultraottantenni o meno, sono caduti in questa battaglia contro il virus.

Tutte le guerre hanno i loro caduti, e la memoria collettiva, a mio avviso, sarà il modo per ricordare che i “numeri” erano in realtà padri e madri, nonni e nonne, sposi e spose. Sarà il segnale che si è finalmente rientrati nella normalità

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
duepunti
UNICHIMICA

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