31 Ottobre 2020 - 10.51

La Commemorazione di defunti al tempo del Covid-19


Credo sia un dato di fatto che, nella seconda parte del XX secolo, nelle società occidentali ha preso campo la tendenza a “censurare” il tema della morte.
Basti pensare come per indicare il “fine vita” invece della parola “morte” si  utilizzino termini come “scomparsa”, “transito”, “trapasso”, e parimenti al posto di dire che qualcuno è “morto”, si preferiscono eufemismi o  metafore quali “splende di nuova vita”, “non è più tra noi”, “è salito al Padre”, “si è spento”, “è venuto a mancare”.
Non c’è dubbio che la nostra società impregnata di “giovanilismo” cerca di rimuovere, di esorcizzare la morte.  Ed è un fenomeno piuttosto recente, perchè nella storia dell’uomo la morte è sempre stata accettata come un fenomeno naturale, e c’è sempre stata una naturale coesistenza tra vivi e morti. Fino a non molti decenni fa la morte di un genitore, di un fratello, di un figlio, era considerata un evento triste ma facente parte dell’ordine naturale delle cose; oggi chi quotidianamente vive e lavora negli ambienti sanitari tocca con mano come il mondo contemporaneo ritenga che oggi non si debba più morire, e che qualunque mezzo debba essere usato in ogni situazione patologica anche a tarda età, anche quando non ci sono più le condizioni fisiologiche per sostenere modalità diagnostiche e terapeutiche complesse che, se impiegate in queste situazioni, non farebbero altro che complicarle ancora di più o essere del tutto inutili, inefficaci o addirittura deleterie
Così la morte è diventata un tabù.  L’uomo pare aver sviluppato un culto della vita in virtù del quale, non dovendosi preoccupare o non pensando al suo cessare, si illude che il tema della morte non lo riguardi.
Negli ultimi decenni l’approccio alla morte nella nostra società è stato duplice. Da un lato la malattia e la morte sono state sempre più allontanate dalla nostra vita quotidiana e istituzionalizzate, facendoci perdere quella consuetudine con essa che era tipica del passato. Nascondendola soprattutto ai bambini, facendola diventare un evento di cui non parlare, qualcosa da cui essere protetti, non qualcosa con cui fare gradualmente esperienza. Dall’altro lato la morte è entrata nelle nostre case in forme sempre più spettacolarizzate attraverso i media, i videogiochi, che la fanno sembrare qualcosa di irreale, e con cui è possibile giocare.
In questo clima di rimozione sociale è deflagrato il Covid-19, che ha riproposto il tema della nostra fragilità di esseri umani nei confronti dell’esperienza della malattia, e della morte come fatto concreto, presente, quotidiano, mettendo così in evidenza la nostra profonda impreparazione ad affrontare quello che per le generazioni passate era la norma; la precarietà della condizione umana.
Ma come corollari la pandemia ha rimesso al centro delle nostre vite l’importanza dei legami umani, del faccia a faccia, dello stare insieme.  Ha riproposto il tema della fragilità della vecchiaia, ribadendo che la vita di un anziano è preziosa tanto quanto quella di un giovane, almeno fino ad ora.  L’emergenza sanitaria ci dovrebbe costringere a capire che la nostra responsabilità individuale è fondamentale per la tutela della salute collettiva, anche se purtroppo le cronache continuano a mostrarci troppe persone che con i loro comportamenti sfuggono a questa responsabilità.
Tornando alla morte, va rimarcato che la civiltà umana inizia proprio con il culto dei defunti.   La cultura, in senso generale, nasce cioè nel momento in cui l’uomo comincia a seppellire i morti, con la nascita di tutti i riti connessi al trapasso, e l’idea portata dalle religioni che la morte sia un passaggio da questa vita ad un’altra ultraterrena. 
Il mondo antico attribuiva un’importanza cruciale alla sepoltura: chi moriva insepolto rimaneva maledetto da Dio e dagli dei, e la sua anima era destinata a non trovare pace. Da ciò derivava che ogni morto aveva diritto alla sepoltura, in nome di leggi non scritte e immutabili, di fronte alle quali dovevano cessare gli odi, le vendette e le inimicizie.
Seppellire i morti, avere cura delle loro tombe, è una misura di umanità comune a tutte le società.
Al riguardo è sempre interessante leggere, o rileggere, la poesia di Ugo Foscolo “I sepolcri”.
I cimiteri sono nei secoli diventati luoghi di culto e di memoria, e lo esprime bene sempre Ugo Foscolo quando scrive che “la civiltà dei popoli si riconosce dal culto dei morti”.
Culto che viene rinnovato ogni anno dalla Chiesa Cattolica il 2 di novembre.
L’idea di commemorare i defunti in suffragio nasce su ispirazione di un rito bizantino che celebrava infatti tutti i morti all’incirca in un periodo compreso fra la fine di gennaio ed il mese di febbraio. Nella chiesa latina il rito viene fatto risalire all’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny nel 998: con la riforma cluniacense stabilì infatti che le campane dell’abbazia fossero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1º novembre per celebrare i defunti; successivamente il rito venne esteso a tutta la Chiesa Cattolica. Ufficialmente la festività, chiamata originariamente Anniversarium Omnium Animarum, appare per la prima volta nell’Ordo Romanus del XIV secolo.
Il giorno dei morti è quello in cui tradizionalmente si compie una visita in cimitero.  E’ il momento del ricordo di chi ci ha lasciato, in cui si perfeziona la comunanza fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Ma oltre alla visita ci sono altre tradizioni, che con il passare del tempo, e con l’imposizione commerciale di altri riti, stanno via via scomparendo.
Quando parlo di “altri riti” mi riferisco in particolare ad Halloween, che forse non tutti sanno che in realtà non ha portato nulla di nuovo, a parte gli scherzi ed i travestimenti macabri.
C’è una leggenda relativa alla commemorazione dei defunti secondo la quale pare che i Cristiani vagabondassero di villaggio in villaggio per chiedere un dolce chiamato “pane d’anima”, ed ogni dolce ricevuto faceva aumentare le preghiere per i defunti di quella casa che si era dimostrata accogliente.
Non vi ricorda il peregrinare dei ragazzi, ripetendo il mantra “dolcetto o scherzetto”?
Ma anche la zucca intagliata, simbolo di Halloween, non è una invenzione dei Celti irlandesi.     Nel nostro Veneto è sempre esistita, almeno fino agli anni ‘30/’40 del secolo scorso, la tradizione di intagliare una zucca ed accendere una candela all’interno.  Si chiamava Lumèra, Suca Baruca, o Suca dei morti.  Le zucche servivano ad illuminare la strada alle anime dei cari defunti, ma anche a spaesare quelle dei morti più dispettosi. La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con queste zucche per spaventare i passanti soprattutto nei pressi dei cimiteri; poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne. In ogni famiglia, inoltre, si preparava “Il Piatto dei morti” con castagne, dolci, marroni, fave, e lo si lasciava sul tavolo o sui davanzali come dono per le anime.  A Piove di Sacco, nel padovano, viene celebrata ogni anno una festa denominata “Suca baruca col mòcolo impissà”.      Ed in più, poiché non c’è ricorrenza senza un dolce tipico, anche in Veneto esistono molti dolci tradizionali legati al giorno dei morti, quali ad esempio il “Pan dei morti”, diffuso anche in altre Regioni, gli “Ossi da morto” (biscotti allungati che sembrano degli ossicini) e le “Favette dei morti”.
Purtroppo questo 2 novembre 2020 cade nel pieno della seconda ondata del Covid-19, per cui in certi Comuni potrebbe esserci qualche limitazione all’accesso ai cimiteri.
Ma a maggior ragione, ovviamente sempre rispettando le prescrizioni anti contagio, vale la pena di andare a fare visita ai nostri morti, per portare loro almeno un fiore.
Il ricordo va a tutti i morti ovviamente, ma in particolare quest’anno alle decine di migliaia che sono deceduti a causa del coronavirus, persone che spesso si sono spente sole in una corsia di ospedale, vedendo come ultima immagine gli occhi di un infermiere, e che non hanno potuto avere nemmeno un funerale adeguato; solo una breve e frettolosa benedizione o un saluto laico, e pochi intimi al cimitero.
La ricorrenza del 2 novembre sarà così l’occasione per fare cerniera fra noi ed i nostri cari che, come dicono gli alpini, “sono andati avanti”, che ci hanno anticipato nel percorso definitivo, riconsiderando la loro vita, ed esprimendo così il nostro ringraziamento per i doni che ci hanno dato.


P.s.: celiando un po’, può darsi che qualcuno di voi abbia letto questo pezzo con le dita incrociate, facendo le corna, o con le mani affondate nell’inguine.   Sono gesti scaramantici molto diffusi, nei quali, chi più chi meno, indulgiamo un po’ tutti. Ma sulla cui efficacia è lecito nutrire qualche dubbio, visto che i cimiteri sono pieni di persone che facevano le corna o si toccavano.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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