6 Aprile 2020 - 9.30

Il dibattito sulla sanità pubblica ai tempi del coronavirus

Le emergenze spesso rappresentano l’occasione di cui certa politica approfitta per far passare surrettiziamente riforme, o ritorni al passato, che in altri momenti nemmeno avrebbe il coraggio di proporre.
Mi riferisco al fatto che, dapprima timidamente, adesso con la discesa in campo di personaggi di maggiore caratura, e parlo di ruoli politici non di professionalità, sembra sia partita una nuova deriva centralista che, sfruttando la situazione drammatica causata dall’epidemia di coronavirus, propone di riportare a Roma, allo Stato centrale, le competenze sulla sanità.
L’offensiva, se così vogliamo chiamarla, è partita qualche giorno fa con una intervista del vicesegretario del Partito Democratico Andrea Orlando, nella quale specificava la seguente posizione: “Dopo la crisi bisognerà iniziare a ragionare, traendo una lezione da quanto successo, e pensare se sia il caso di far tornare in capo allo Stato alcune competenze come la sanità. Con 20 regioni che parlano 20 lingue diverse, credo sia necessario riconsiderare l’ipotesi della clausola di supremazia prevista dalla riforma del 2016, ovvero di un ritorno delle competenze sanitarie allo Stato centrale. A seconda della qualità del sistema regionale che trovi, rischi di avere una speranza di vita differenziata”.
Ad Orlando ha fatto subito sponda il reggente del Movimento 5Stelle Vito Crimi, con queste parole: “È uno dei nostri primi ddl presentato dalla senatrice Taverna, togliere la tutela della salute dall’articolo 117 della Costituzione e riportarla in capo allo Stato. Le Regioni stanno dimostrando la differenza di trattamento. Alcune Regioni stanno dando risposte ottime, altre no”.  
Sulla stessa linea anche i renziani di Italia Viva, con Maria Elena Boschi: “Oggi sia il Movimento 5 Stelle sia il Pd si sono dichiarati favorevoli a cambiare il Titolo V, cioè le competenze di Stato e Regioni, nella parte legata alla sanità. A me sembra un buon punto di partenza. Penso, però, che sia necessario prevedere soprattutto la clausola di supremazia. In poche parole, consentire allo Stato di richiamare a sé le competenze delle Regioni quando è strettamente necessario per tutelare l’interesse nazionale e dare una risposta netta, uguale per tutti. Sarebbe stato utile farlo in queste settimane. E se tutte le forze politiche sono d’accordo si potrebbe fare subito”.
Non si tratta di posizioni isolate quindi, perchè sembrano trovare consenso in tutte le forze politiche che sostengono l’attuale maggioranza, anche se dal Governo si è subito chiarito che il tema non è all’ordine del giorno.
E poiché le competenze in campo sanitario sono di fatto “il cuore” dell’attuale livello di autonomia regionale, si capisce che la posta in gioco è di grande rilievo.
Comprensibili di conseguenza le posizioni nettamente contrarie dell’opposizione, e della Lega in particolare.   Matteo Salvini, con il suo consueto “far play”, in diretta facebook ha dichiarato: “Quando il vicesegretario del PD Orlando dice che la sanità deve essere centralizzata, non sa quello che dice”.  E per meglio spiegare il suo pensiero, prendendo spunto dalle mascherine, ha rincarato: “La Regione Lombardia ha fatto produrre milioni di mascherine da aziende italiane con materiali approvati dal Politecnico di Milano, che è una delle migliori università del mondo, ma siccome da Roma manca la certificazione dell’Istituto superiore di sanità, queste mascherine non possono essere utilizzate. Manca il bollino blu dello Stato, il bollino blu della banana Chiquita”.
Ma nel “dibattito” si è inserito anche il Presidente del Veneto Luca Zaia: Da noi la sanità funziona, quindi se l’obiettivo è quello di un’equa divisione del malessere, prendo atto. Altrimenti, quella di Orlando è un’uscita improvvida».
Ma Zaia non si fermato ad una petizione di principio.  E’ andato più in là, ipotizzando una sorta di referendum sulla sanità: «Se qualcuno vuole azzardarsi a mettere in discussione il nostro modello sanitario noi ci mettiamo due secondi a far rispondere il popolo. Come? Chiedendo ai veneti se vogliono essere curati da Roma o dal Veneto».
Visto come è andato il referendum sull’autonomia differenziata nella nostra Regione, Zaia sa bene che, se si richiamassero i Veneti alle urne sulla sanità regionale, un bis sarebbe quasi sicuramente garantito.
Solo per completezza di informazione, a quanto è dato sapere sembra che anche la Regione Emilia Romagna sarebbe contraria ad un ritorno dell’egemonia statale sulla sanità.
Io  credo che tornare indietro sul modello della sanità pubblica sia a questo punto quasi impossibile, ma ciò non toglie che si possa aprire una discussione  sul tema, per vedere ciò che si può migliorare, senza stravolgerne l’impianto.
Ma la cosa più importante è che questo eventuale dibattito sia basato su cose concrete, sui modelli organizzativi, sui livelli dei servizi, e non su basi ideologiche, che in questa fase politica vedono la rinascita di modelli centralistici e statalistici.
L’obiettivo comune dovrebbe essere quello di avere un modello di sanità di buon livello in tutto il territorio nazionale, e non quello di un posizionamento al livello più basso.
Non si può rischiare, per una “pelosa” aspirazione all’uguaglianza, di cercare di correggere gli squilibri esistenti fra le varie realtà regionali, ponendo come “benchmark” i modelli meno efficienti.
Non è facendo scadere l’intero sistema alla realtà delle regioni meridionali, cancellando certe eccellenze del nord, che si risolve il problema.
Ecco perchè mi soffermo sulla necessità di bandire l’ideologia.
Perchè da questa fase drammatica si può uscire con grandi difficoltà, tirandosi su le maniche, coinvolgendo tutti gli italiani, ma restando ancorati al nostro modello di democrazia occidentale, oppure, come mostrano certe scelte recenti come Alitalia, statalizzando buona parte del sistema produttivo, perpetuando elargizioni assistenziali, mantenendo una burocazia ipertrofica.  Con il risultato, in quest’ultimo caso, che l’Italia diventerebbe una specie di grande Cuba, con uno Stato invadente e padrone del sistema produttivo, e probabilmente con le code perenni davanti ai supermercati.
Oltre a tutto di quale sanità di Stato dovremmo avere nostalgia?
Di quella che non è riuscita ad evitare le profonde “differenze” fra la sanità del Sud e quella del Nord? Senza chiedere mai conto ai potentati del sud dello scadimento dei servizi.
Di quella che non è riuscita ad imporre i costi standard, rimanendo sempre ancorata ai costi storici?
Di quella che non è riuscita ad impedire le infiltrazioni mafiose nel mondo sanitario?
Di quella che non è riuscita ad impedire il cosiddetto “turismo sanitario” dei cittadini meridionali verso gli ospedali del Nord?  Certo togliendo le eccellenze del Nord, equilibrando tutto al ribasso con un nuovo centralismo, questo problema sarebbe risolto.
Di quella che anche in questa fase drammatica non riesce a dare risposte in tempi ragionevoli alle regioni maggiormente coinvolte nell’epidemia, costringendole di fatto a reperire autonomamente le attrezzature per gli ospedali?
Tutto è perfettibile a questo mondo, e anche le migliori sanità regionali hanno le loro pecche, le loro carenze.
E il fatto che alcune Regioni siano riuscite negli anni a mettere in piedi sistemi sanitari di livello europeo, e talvolta mondiale, e altre che invece navighino ancora in mezzo ad inefficienze croniche costituisce un problema che deve essere affrontato una volta per tutte.
Ma non con le circolari, non con i piani quinquennali, non con gli “ukase” ministeriali, non con una burocrazia incapace ed autoreferente, che in questi giorni sta mostrando il peggio di se stessa.
L’ autonomia sanitaria, e quindi la diversificazione fra i sistemi regionali va confermata, anzi va potenziata.
Perchè favorisce la creatività nelle soluzioni organizzative.  Perchè spinge ad un continuo miglioramento dell’esistente.  Perchè impone una crescita professionale e culturale delle dirigenze tecniche, organizzative, e anche politiche.  Perchè genera una sana concorrenza fra i diversi modelli regionali, spingendo, si spera, i peggiori verso i migliori.
Ed in quest’ottica i migliori giudici della sanità sono gli utenti, i cittadini, che capiscono eccome quando le cose funzionano e quando no.
Come emerge inequivocabilmente dall’ultimo Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese, da cui si ricava che l’83% degli abitanti nel Mezzogiorno ritiene il proprio servizio sanitario regionale “non adeguato”; tale percentuale è molto inferiore nelle Regioni settentrionali: nel Nord-Est gli insoddisfatti sono infatti il 35%, nel Nord-Ovest meno del 30%.
La Sanità presidia la salute collettiva ed individuale.
Per questo la sua organizzazione, anche territoriale, non può essere decisa nelle segrete stanze dei partiti romani, o sulle pagine dei quotidiani con qualche dichiarazione.
Se si vuole cambiare, i cittadini devono poter esprimere le loro idee, con il solo modo che la democrazia consente; il voto.
Questo Luca Zaia dimostra di averlo capito.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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