19 Febbraio 2021 - 15.33

Il cuore grande di Vo’ Euganeo

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di Umberto Baldo

Domenica 21 febbraio non sarà, non potrà essere una domenica come le altre. E non per questioni di calendario liturgico; si tratta semplicemente della prima domenica di quaresima.
E non lo sarà soprattutto a Vo’ Euganeo, un piccolo paesino di 3.000 anime sulle pendici dei colli euganei, immerso nel verde dei vigneti, che suo malgrado è diventato un paese simbolo della pandemia da Coronavirus.
Certo, si potrebbe dire, da qualche parte il Covid doveva iniziare il suo cammino in mezzo a noi, ma nessuno spiegherà mai perchè, fra tanti posti possibili, per fare la prima vittima abbia scelto una piccola comunità in questo lembo della provincia patavina
Sofisticando un po’ si potrebbe dire che la prima diagnosi di coronavirus fu fatta il 29 gennaio 2020 allo Spallanzani di Roma su due cittadini cinesi provenienti da Wuhan. E che quello che venne definito il “paziente zero” italiano si presentò il 17 febbraio all’ospedale di Codogno.
Ma spetta a Vo’ il triste primato della prima vittima del Covid in Occidente.
Era appunto venerdì 21 febbraio 2020 quando venne annunciata la morte di Adriano Trevisan, 78 anni appena compiuti, e Vò divenne il titolo di apertura di tutti i notiziari dei giornali e dei media mondiali.
Un primato di cui il Sindaco Giuliano Martini ed i suoi concittadini avrebbero sicuramente fatto a meno!
Da quel giorno la Locanda al Sole, il locale in cui Trevisan era solito passare qualche ora fra un giro di carte, un’ “ombra” di vino, e magari la partita vista in televisione assieme agli amici, diventa il primo cluster della nostra Regione
Cluster, un termine al quale con il tempo abbiamo fatto l’abitudine, che significa “grappolo”, e che rende bene l’immagine della modalità di diffusione del Covid, appunto con il contatto “fra un acino ed un altro”, fra un uomo ed un altro uomo.
Credo non vada sottaciuto che Luca Zaia, pur preso in contropiede dalla notizia del primo focolaio veneto, non perse la lucidità, e attivò in tempi strettissimi le drastiche contromisure che divennero poi un modello per il resto del Paese.
In accordo con il prof. Crisanti, che allora era perfettamente allineato con il Governatore, dispose subito (anche se a Roma dicevano che era sbagliato) che tutti i cittadini di Vo’ venissero sottoposti ai tamponi molecolari ed antigenici.
Allo screening di massa seguì, dopo un paio di giorni, l’istituzione della zona rossa, con l’esercito schierato ai varchi di accesso al Comune.
E’ passato un anno da allora, un anno così lungo da sembrare un secolo.
Un anno che fatalmente ha cambiato le nostre vite.
Perchè abbiamo dovuto fare i conti con un’emergenza non solo sanitaria, ma anche sociale ed economica, amplificata ogni giorno attraverso i media, con un‘informazione quasi ossessiva sui contagi, sulle caratteristiche del virus, sulle terapie e sui vaccini.
Un’evenienza cui non eravamo preparati, e che mi auguro abbia aperto gli occhi a tutti noi, anche a quelli che si ostinano a negare l’esistenza del virus e la necessità delle misure di protezione.
Un’evenienza che sicuramente ha contribuito a fare capire soprattutto ai più giovani, ai vecchi non ce n’era bisogno, che la vita non è tutta rose e fiori, che le crisi, le difficoltà, possono caderci addossi improvvisamente, che la sicurezza assoluta non esiste, e che la salute non è una cosa scontata.
Ritengo sia inutile ripercorrere le tappe della pandemia durante il 2020. Credo basti ricordare una data, quella del 18 marzo, forse il giorno peggiore per il nostro Paese, quello in cui gli autocarri militari hanno sfilato per le strade di Bergamo con 65 bare. E non a caso, a seguito di quelle immagini spettrali, la Camera dei Deputati in luglio ha votato all’unanimità l’istituzione per questa data della “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemie del coronavirus”.
Purtroppo la pandemia non è ancora finita. Nuove varianti più aggressive e letali del virus imperversano in Europa e anche nel nostro Paese, e quindi ci aspettano ancora lunghi mesi di limitazioni e rinunce. Ma rispetto a quel 21 febbraio dell’anno scorso, quando sembrava che il mondo dovesse crollarci addosso, abbiamo la speranza che i vaccini messi a punto in tempi record possano rappresentare veramente la luce in fondo al tunnel.
Ma la speranza non può, non deve, cancellare i ricordi.
Ecco perchè domenica prossima sia a Vò Euganeo che a Codogno, i due paesi simbolo della pandemia, si svolgeranno due cerimonie per non dimenticare i tanti, i troppi, che non ce l’hanno fatta.
A Codogno verrà inaugurato un nuovo spazio contemplativo, al centro del quale sarà installato il memoriale, formato da tre piastre in acciaio, a rappresentare Codogno e le sue due frazioni. Nell’area sarà inserito anche un melo cotogno (simbolo del comune lodigiano) avvolto da fiori e piante che escono direttamente della parte retrostante delle tre piastre. Una serie di sedute in cemento completeranno la zona di meditazione.
A Vò Euganeo, il primo comune in Europa a piangere un concittadino, Adriano Trevisan, durante la cerimonia di domenica all’esterno del Municipio verrà esposto invece un grande cuore tricolore.
Che non è stato realizzato in una fabbrica, bensì da 14 donne con un grande impegno personale. Un cuore tricolore di circa 20 metri quadri, fatto da una miriade di centrini all’uncinetto bianchi rossi e verdi, realizzato con 26mila metri di filo in 1.200 ore di lavoro.
Sarà il regalo di queste 14 donne alla comunità di Vò.
Ma sarà un cuore che, superando i confini comunali, commemorerà in un abbraccio collettivo tutti coloro che ci hanno lasciato dall’inizio della pandemia.
Umberto Baldo

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