10 Luglio 2019 - 9.52

EDITORIALE – Tutti parlano di ambiente, ma i Verdi dove sono finiti?

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I risultati delle recenti elezioni europee hanno certificato che non c’è stata la tanto temuta avanzata dei partiti sovranisti, che hanno si incrementato la loro rappresentanza a Bruxelles, soprattutto grazie alla Lega e al Front National della Le Pen, ma non hanno operato lo sfondamento predetto da Salvini.  Ma hanno altresì reso palese che i veri vincitori delle elezioni sono stati i Verdi, con 70 seggi conquistati, rispetto ai 52 della scorsa legislatura.    I Grune volano soprattutto in Germania, dove sono passati dal 6,9% delle precedenti elezioni al 20,7%, diventando il secondo partito, prima dei social-democratici (15,8%) e non molto lontani dai popolari della Cdu-Csu (28,9%).   Onda verde anche in Francia (13,5%), e risultati degni di nota in Spagna (10%), Portogallo (6,9%), Belgio (15,4%), Finlandia (16%), Inghilterra (11,1%), Irlanda (15%).
E in Italia?   “Verdi non pervenuti”, si potrebbe dire, in quanto hanno raccolto appena il 2,25%, non riuscendo così a superare lo sbarramento del 4%  Quali le motivazioni di questa vistoso “disallineamento” con gli ambientalisti del resto del continente?
Ogni Paese ha la sua storia, ma è evidente che il motivo principale sta nel fatto che da noi gli ecologisti non sono riusciti a fare il “salto di qualità” degli omologhi europei.  Infatti i nuovi Verdi in Europa hanno completamente metabolizzato la metamorfosi post-ideologica che li ha trasformati, praticamente ovunque, in un partito pragmatico, che non ha nulla da spartire con l’ambientalismo ideologico degli anni Settanta. Si tratta, finalmente, di un ecologismo di governo, che applica il principio della sostenibilità, quella dei 17 obiettivi dell’Agenza Onu 2030 sullo Sviluppo sostenibile, a tutti gli ambiti di una società aperta, con un’autentica impronta liberale e cosmopolita. Con un welfare da riformare, meno squilibrato a favore delle persone in età avanzata e più vicino alle donne e ai giovani. Con un cambiamento ispirato a idee, valori, e obiettivi molto innovativi. Senza inutili rimpianti, ma anche senza velleitarie proposte avventuristiche.
Nel Belpaese invece i Verdi sono stati troppo spesso il partito dei “NO”, incapaci di affiancare agli allarmi lanciati sul futuro della terra, proposte concrete ed alternative credibili e percorribili.  Sono rimasti cioè un partito “vecchio”, rappresentato dalle solite facce, ancorato a vecchi schemi di alleanze.
Per capirci meglio, i leader che guidano i partiti ecologisti europei, in maggioranza donne, hanno finalmente realizzato che le elezioni si “vincono al centro”.   E allargando la proposta politica, sono stati infatti in grado di attrarre la classe media progressista, così assecondando i bisogni di una parte della popolazione che non si ritrova né nella retorica di sinistra, ormai in disarmo ovunque, né in quella della destra, che ormai ha assunto toni troppo estremisti. In sintesi i Verdi europei propongono una transizione ecologica che si accompagni a un miglioramento globale della qualità della vita, e ad una ridistribuzione delle risorse, in una prospettiva che si poggia su un’idea di giustizia sociale molto attrattiva per la classe media.
Una vera rivoluzione nella proposta politica, che gli ecologisti nostrani non hanno compreso, restando ancorati ai vecchi schemi del passato. 
Storicamente, i Verdi europei sono nati tutti insieme, sulla scia delle prime istanze ambientaliste degli anni settanta, in particolare dopo l’incidente della centrale nucleare di Cernobyl. Come i Verdi tedeschi, anche quelli italiani inizialmente ottennero l’appoggio e furono spesso guidati da personaggi che negli anni Sessanta e Settanta facevano parte della sinistra extraparlamentare. La fine del ’68 aveva infatti portato su temi ambientalisti molti di coloro che fino a pochi anni prima facevano parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Il più famoso in Italia è stato probabilmente Marco Boato, tra i fondatori di Lotta Continua, passato ai Verdi negli anni Ottanta.   Nel corso degli anni 2000 la guida passò ad Alfonso Pecoraro Scanio, che continuò in un’alleanza “perdente” con l’estrema sinistra. E da quello schema non si sono di fatto più distaccati.
Ma nel frattempo lo spazio politico dell’ambientalismo venne occupato con successo da Beppe Grillo, che sui temi ecologici pose le basi del successo del Movimento 5 Stelle.   Molti degli attuali parlamentari pentastellati  provengono da esperienze di tutela e difesa del patrimonio ambientale e paesaggistico del nostro Paese.  E molti continuano ad avere nella salvaguardia ambientale la ragione fondamentale del proprio impegno politico, soprattutto contro le grandi opere (Tav, Tap, Terzo valico, alta velocità ecc.).
Ma un conto è fare campagna elettorale, e tuonare dall’opposizione, altra cosa è governare.  E governare significa soprattutto scegliere, fissare priorità ed agire per realizzarle.  Tentennamenti, ammiccamenti, affidarsi a fantomatiche analisi costi-benefici, serve a poco.  Bisogna saper dire anche dei “SI”, anche se questo comporta “tradire” tutti quei “Movimenti del No a tutto” che sono stati alla base del successo grillino.   Se a questo si aggiunge l’impreparazione, per non dire inadeguatezza, di esponenti messi a capo di strutture complesse come i Ministeri, non stupisce come il Movimento 5Stelle sia riuscito a dilapidare in pochi mesi la metà del consenso elettorale ottenuto alle politiche del 2018.  Non è poi che i pochi sindaci grillini abbiano aiutato.   Basti un solo esempio: le giravolte delle Sindaca di Roma Virginia Raggi di fronte ad una città che sembra un letamaio, con ratti e gabbiani a pasteggiare sui mucchi di immondizie, mostra tutte le contraddizioni della politica “ecologica” pentastellata.  E’ evidente infatti che se si producono rifiuti bisogna poi smaltirli, ma se per scelta ideologica non vanno bene né le discariche né gli inceneritori, non si può pretendere di continuare a portare le “scoasse” in altre Regioni o all’estero.
Sulla base di queste considerazioni, ritengo improbabile che il futuro di un partito verde “di governo”  possa passare in Italia per il movimento  5Stelle. La “descrescita felice”, a suo tempo cavallo di battaglia di Casaleggio e Grillo, è palesemente inadeguata ad una società che voglia crescere, sia pure modificando profondamente gli attuali modelli di sviluppo.  I giri di valzer, le incertezze sull’obbligo vaccinale, i tentennamenti sull’immigrazione, ma soprattutto le “pulsioni” anti industriali, latenti nei penstastellati, alla prova dei fatti sono rifiutate dagli italiani, che infatti si spostano sempre più verso Salvini e la Lega.
Io credo invece che anche la nostra società possa essere interessata ad un messaggio ambientalista, come avvenuto altrove in Europa, con la conseguente apertura di “praterie” nell’elettorato.  Ma perchè ciò sia possibile  è necessario che si affermi una nuova generazione di leader, sganciata dai tradizionali legami con certa sinistra,  ancora connotata da una visione pauperistica.  Deve cioè passare il messaggio, come avvenuto in Germania e Francia, che collega la sfida ambientalista alla contemporaneità.  In sintesi, una possibile vittoria elettorale non può derivare dalla prospettiva di un neo Medioevo prossimo venturo, bensì da un collegamento fra ambiente, sviluppo ed innovazione.
Certo non sarà facile, data l’attuale geometria politica italiana, ma io penso che molti italiani, piuttosto che per un progetto politico che li convinca, ormai votino o “contro”, o secondo la logica del “meno peggio”.  Il messaggio che il 26 maggio è arrivato dall’Europa sta nell’ecologia, e i numeri acquisiti all’Europarlamento possono cambiare il centro di gravità politico. Non è una fatalità, ma una proposta politica sovranazionale, sulla quale sarebbe opportuno ragionare, e magari agire di conseguenza, con l’obiettivo di disegnare nuovi equilibri anche nel nostro Paese.

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