9 Gennaio 2020 - 18.12

EDITORIALE – Si vis pacem…

“Abbiamo agito per fermare la guerra, non per iniziarla”.   Con questo semplice tweet, diventato il suo principale mezzo di comunicazione, il Presidente Donald Trump ha commentato a caldo l’attacco “mirato” che ha portato alla morte del generale Soleimani, uno degli uomini più potenti del regime degli ayatollah iraniani.Detta così, l’azione statunitense, da molti considerata “terroristica”, potrebbe trovare una spiegazione nella nota locuzione dello scrittore romano Vegezio “si vis pacem, para bellum”, che nella nostra lingua significa “se vuoi la pace, prepara la guerra”.  Nel senso che, eliminando uno dei più fieri avversari dell’America, si è tolto di mezzo un importante ostacolo ad un eventuale dialogo. Ma dopo l’elezione di Trump credo che tutti i parametri che fino ad ora avevano guidato la politica americana nel Medio Oriente siano un po’ obsoleti.E non penso solo ai dati caratteriali dell’uomo, che pure hanno la loro importanza quando si parla di un “Capo” che può decidere azioni militari senza neppure consultare il proprio Congresso. Poiché la politica internazionale è quanto di più difficile da interpretare, tanti i fattori che finiscono per condizionarla, credo sia utile inquadrare sia l’ambito socio-politico-religioso nel quale si svolgono queste vicende, sia i fattori economici che inevitabilmente finiscono per condizionarle. Partendo proprio dall’economia, fino alla Presidenza di Obama la storia del Medio Oriente per gli americani, e non solo per loro, si traduceva in “storia del petrolio”.  Per il petrolio gli Stati Uniti hanno sempre tenuto portaerei, corazzate e sommergibili a pattugliare il Golfo Persico, l’arteria dove transita un quarto del traffico mondiale del petrolio.  Per avere un’idea precisa, solo dieci anni fa l’America aveva bisogno di 12 milioni di barili al giorno, buona parte dei quali transitava per lo stretto di Hormuz. Ma da ottobre dell’anno scorso gli Usa non hanno più bisogno di importare petrolio, avendo raggiunto non solo l’autosufficienza produttiva grazie alla tecnica estrattiva dello shale oil, ma addirittura diventando Stato esportatore. Non dico che questo sia il principale motivo del mutato atteggiamento americano relativamente alla politica medio orientale, ma sicuramente è un evento epocale per gli Usa, che consente di guardare al Medio Oriente con occhio diverso, anche se non è detto che l’attuale produzione dello shale oil sia garantita nell’immediato futuro. Che Donald Trump sia un Presidente imprevedibile, forse umorale, lo abbiamo visto fin da subito relativamente a svariati dossier, dal clima ai dazi, alla Nato.Sul Medio Oriente oltretutto Trump ha dato da subito l’impressione di voler fare tutto il contrario del suo predecessore Barak Obama. Farfugliando, twittando, togliendo truppe, rimettendo truppe, ma soprattutto dando la netta impressione che l’interesse americano per quell’area sia del tutto scemato.Per arrivare nei giorni scorsi, ulteriore conversione inaspettata, all’ordine di far fuori Soleimani con un drone.  Di fatto gettando benzina sul fuoco in un’area geo-politica che di per sé non ha bisogno di piromani.  Venendo poi alla situazione socio-politico-religiosa del Medio Oriente non bisogna mai dimenticare che quasi tutte le tensioni derivano in qualche modo dalla contrapposizione che dal 1979 esiste fra Iran ed Arabia Saudita, il che vuol dire fra sciiti e sunniti, le due grandi correnti dell’Islam, che trovano le loro origini addirittura ai tempi del profeta Maometto.E le guerre di religione che fra 500 e 600 contrapposero nella nostra Europa cattolici e protestanti, con la ferocia che le contraddistinse, la dicono lunga sul peso che il credo religioso ha negli eventi storici.Oltre a tutto le guerre che via via hanno insanguinato il Medio Oriente, la presenza di Israele, l’irrompere sulla scena di movimenti terroristici tipo Al Kaida o da ultimo l’Isis, hanno creato una situazione esplosiva, nella quale è sempre più difficile raccapezzarci, e della quale cercano di approfittare  anche potenze fino ad ora poco presenti nella regione, dalla Russia  alla Turchia, e non escludendo la Cina.In estrema sintesi, l’Arabia Saudita è il punto di riferimento principale del “blocco sunnita”, mentre l’Iran lo è del “blocco sciita”.Ma questa divisione di tipo religioso è finita per riflettere anche i confini degli Stati.In Iraq la popolazione è divisa fra sciiti e sunniti, e l’Iran viene considerato il principale sostenitore del Governo a maggioranza sciita. La Siria è a maggioranza sunnita, ma il regime del Presidente Assad è prevalentemente sciita; di conseguenza Teheran appoggia Assad, i sauditi l’opposizione.Stessa divisione in Libano, dove l’Iran è alle spalle del principale partito-milizia sciita, Hezbollah, mentre Ryadh sostiene la famiglia Hariri, potente clan sunnita.In Yemen lo scontro fra sciiti e sunniti si è tramutato da anni in aperta guerra civile, con l’intervento diretto dell’Arabia Saudita, e Teheran a fornire armi e supporto agli oppositori.A Gaza il menù è analogo, con il Partito della Jihad Islamica considerato un vero e proprio braccio armato di Teheran, ed Hamas meno legata agli Ayatollah.E per non farci mancare niente, va rilevato che in Arabia Saudita è predominante il wahhabbismo, che propugna una interpretazione particolarmente rigida della legge islamica.  Il wahhabbismo fa parte a pieno titolo del blocco sunnita, e non a caso la monarchia saudita ha sostenuto finanziariamente, anche se mai apertamente, i gruppi più attivi nella guerra contro gli sciiti, inclusi Nusra, Al Quaeda e l’Isis.Capite bene che in queste condizioni  è sempre più difficile fare politica, ed i cambiamenti di alleanze sono sempre più frequenti.Ma allora perché Donald Trump ha deciso di forzare la mano, autorizzando il blitz che ha portato alla morte di uno dei capi sciiti iraniani più importanti?Non è facile rispondere a questa domanda, sulla quale si stanno arrovellando le diplomazie degli Stati, e tutti i commentatori politici.E’ possibile che Trump, com’è nelle sue caratteristiche, abbia agito d’istinto, decidendo di colpire un personaggio che né Bush né Obama avevano osato toccare, per timore delle inevitabili conseguenze.   E su questa decisione ha probabilmente influito l’attacco all’ambasciata americana a Baghdad del 31 dicembre dell’anno scorso, sicuramente per la paura di dover rivivere il fantasma dell’assalto al consolato di Bengasi in Libia del 2012, nel quale trovarono la morte l’ambasciatore Chris Stevens ed altri tre cittadini americani.Va poi considerato che il 2020 negli Stati Uniti è l’anno delle elezioni presidenziali.  Dopo il positivo andamento dell’economia Usa e della Borsa negli ultimi tre anni, Trump sentiva probabilmente la necessità di mostrare agli elettori la sua determinazione anche in politica estera.C’è poi un ulteriore elemento, legato alla richiesta di impeachment promosso contro Trump dal Partito Democratico.   Entrambi i Presidenti che hanno subito la richiesta di impeachment, Bill Clinton e Richard Nixon, hanno cercato di distogliere l’attenzione degli americani intraprendendo azioni clamorose in politica estera. Clinton ordinò bombardamenti in Sudan contro una presunta fabbrica di armi chimiche, ed in Afghanistan contro campi di addestramento collegati ad Osama Bin Laden.    Nixon invece si mosse per chiudere la guerra in Vietnam, ed a creare le basi per normali relazioni con la Cina.E’ chiaro che i “venti di guerra” in Medio Oriente toglieranno dalla prime pagine dei giornali statunitensi le vicende della richiesta di destituzione del Presidente Trump.Cosa succederà dopo il blitz americano non è facile da pronosticare.Anche perché, ammesso che in Iran prevalga l’idea di non correre il rischio di uno scontro militare aperto con gli Usa, limitandosi a qualche azione dimostrativa per quanto clamorosa, non è detto che le tensioni non finiscano per scaricarsi su altri soggetti della regione, e penso in particolare allo Stato di Israele. Non si può concludere senza prendere in considerazione la reazione dell’Unione Europea a questa crisi. Balza agli occhi che l’Europa sta diventando sempre più marginale nei processi che stanno ridisegnando la prossima mappa politica del mondo. Usa, Russia, Cina, persino Stati come la Turchia, sono in prima linea, e continueranno ad essere sempre più protagonisti, a scapito del vecchio continente. E questo perché, va ribadito con forza, non esiste una politica estera “europea”.E lo abbiamo visto in questi giorni, in cui ci si è limitati ad inutili vertici, a qualche balbettio, alle solite dichiarazioni di invito ad abbassare i toni.  Nel mentre le cancellerie dei singoli Stati lavorano sotto traccia per cercare di trovare da soli una soluzione, ovviamente ispirata alla solita logica “mercantile”.Di fatto assecondando le aspirazioni di Trump, di Putin, e di Xi Jinping, che sicuramente un’Europa forte proprio non la vogliono.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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