20 Giugno 2016 - 15.20

EDITORIALE – Sconfitta Pd, Renzi non sfonda al centro, ma sprofonda…

renzi

di Marco Osti

Sono state le elezioni del Movimento 5 Stelle, che, oltre a conquistare Roma, come si poteva prevedere dopo il vantaggio acquisito da Virginia Raggi al primo turno, prevale anche a Torino, dove Chiara Appendino recupera a Piero Fassino oltre dieci punti percentuali rispetto al primo turno.
Nell’anomalo e per molti versi variegato tripolarismo italiano escono quindi sconfitti il centrodestra, che nelle grandi città in cui era ancora in competizione perde ovunque, e il centrosinistra, nonostante le vittorie di Napoli, Bologna e Milano.
Il risultato numericamente potrebbe apparire positivo, invece conferma la debacle in particolare del Partito Democratico, che di fatto ottiene il suo vero successo solo a Bologna, dove il suo candidato Virginio Merola viene rieletto senza patemi.
A Napoli infatti Luigi De Magistris mantiene la carica doppiando nei risultati l’avversario del centrodestra Giovanni Lettieri, ma questa vittoria non è certo attribuibile al Pd, che aveva infatti una sua candidata al primo turno, considerati i rapporti tesi e spesso conflittuali che ha avuto nel tempo e anche sotto elezioni con il confermato sindaco.
Giuseppe Sala, neo primo cittadino di Milano invece è stato sostenuto dal Pd e soprattutto da Matteo Renzi, ma la sua elezione deve molto al consenso politico che raccoglie la sua squadra, soprattutto quella dei suoi assessori, che di fatto era quella con cui ha vinto e governato Giuliano Pisapia, sindaco uscente, rappresentante, con il suo movimento arancione, di un’esperienza politica fuori dagli schemi del Pd.
Non a caso per tutta la campagna elettorale non sono mancate le polemiche per la scelta di un candidato come Sala, vissuto poco come un esponente di centrosinistra e troppo simile, nella sua espressione manageriale, all’avversario del centrodestra Stefano Parisi.
Un fattore che evidentemente ha pesato in una vittoria ottenuta con un margine esiguo, disperdendo molto del consenso che aveva raccolto Pisapia alle elezioni precedenti, peraltro incrementato durante il suo mandato.
Le sconfitte rovinose di Roma e Torino sono invece tutte del Partito Democratico.
Nella Capitale si è giunti a questo punto dopo che è stato fatto dimettere Ignazio Marino dalla carica di sindaco, raccogliendo le firme di sfiducia dei consiglieri comunali di maggioranza davanti a un notaio.
Un atto di forza del Pd, voluto con tenacia dal segretario Matteo Renzi e dalla sua maggioranza interna, che ha lasciato per mesi la città nelle mani di un commissario, senza una guida politica.
Una situazione che ha acuito ulteriormente la sfiducia dei romani verso le compagini di centrosinistra e centrodestra tradizionali e portato il voto in modo massiccio ai 5 Stelle, la cui vittoria era pronosticabile, ma deve fare riflettere il Pd per le sue dimensioni, posto che al ballottaggio Virginia Raggi ha di fatto preso il doppio dei voti di Roberto Giachetti.
Ancora più pesante, se possibile, malgrado il margine numerico decisamente inferiore, è stata la sconfitta di Fassino a Torino.
Un voto che non trova riscontro in una gestione della città positiva, che nel tempo ha visto il capoluogo piemontese rilanciarsi anche sotto il profilo dell’immagine e del turismo.
Per questo motivo la scelta dei torinesi appare proprio un messaggio ancora più dirompente alla maggioranza del Pd, e soprattutto a Matteo Renzi, di cui è chiaramente fallito il progetto di sfondare al centro, anche sacrificando il rapporto con la parte sinistra del partito, spesso relegata a minoranza fastidiosa.
A scontrarsi con la realtà è stata infatti l’idea del premier di costruire un partito della nazione, con scelte, progetti e provvedimenti spesso in conflitto, se non in antitesi, con logiche politiche di sinistra, e attraverso patti e alleanze con esponenti del centrodestra, tra cui soprattutto quello con Verdini, giudicato dalla sinistra del Pd inammissibile e immorale.
Renzi è però andato avanti senza ascoltare il malumore di una parte del suo partito, che lui ha più volte indicato come perdente, anzi accentuando in molti casi le distanze, convinto che il consenso perso a sinistra sarebbe stato ampiamente recuperato tra gli elettori di centro e centrodestra.
L’esito del voto alle regionali di mesi orsono e nei comuni ha sancito che questo progetto è fallito.
Lo dimostra il fatto che dove il centrodestra si è presentato unito i suoi elettori lo hanno premiato portandolo alla vittoria, come avvenuto in Liguria, oppure a contenderla al centrosinistra in modo concreto, come a Milano.
Quando invece il centrodestra non era in competizione il suo popolo ha dato il suo consenso ai 5 Stelle o ha disertato le urne.
Mai ha votato Pd, nel cui ambito si apre ora una fase di ulteriore confronto, durante il quale si vedrà se è ancora possibile una ricomposizione tra maggioranza e minoranza, che chiederà però atti concreti, soprattutto alla vigilia del referendum costituzionale, al cui esito Renzi, a nostro avviso in modo del tutto improprio, lega la sua permanenza al Governo e in politica.
Avremo modo di affrontare questo tema, che resta sullo sfondo di uno scenario in cui il premier da subito può comunque mandare messaggi all’interno del Pd.
Uno concreto sarebbe quello che Renzi, preso atto della sconfitta alle urne del suo progetto di partito, lasciasse la carica di segretario, che peraltro più volte abbiamo valutato incongruente con quella di primo ministro.
Lui pare avere già escluso questa ipotesi e, considerando il personaggio, presumiamo vorrà giocarsi tutto fino al referendum.
In alternativa il premier potrebbe comunque riaprire il dibattito sulla prossima legge elettorale, che peraltro, oltre a non convincere la minoranza del partito nel combinato con le modifiche costituzionali, rischia anche di favorire gli avversari alle prossime elezioni politiche.
L’esito delle elezioni apre una fase importante anche per il Movimento 5 Stelle, il cui successo va comunque ben pesato, considerando l’importanza assoluta di avere conquistato due città come Roma e Torino, ma anche che nel resto del Paese il consenso riscosso dai grillini è stato intorno al 10 per cento, quindi ben inferiore agli exploit di precedenti consultazioni.
Non va infatti dimenticato quanto detto, che le vittorie in questi comuni risentono di situazioni anche contingenti, come il rifiuto dei romani di vedere nuovamente vincenti coalizioni tradizionali, che hanno deluso, e quello dei torinesi di mandare un messaggio a Renzi e al Pd.
Come le due nuove sindache Raggi e Appendino svolgeranno il loro compito sarà quindi indicativo sulla capacità del Movimento di affrontare la sfida di governare e assumere decisioni, anche impopolari, dimostrando che non ha solo la natura di protesta che molti, anche tra i suoi elettori, gli attribuiscono.
La loro esperienza potrà dare nuovo impulso o determinare il limite di questa formazione politica, che dopo la scomparsa di Casaleggio deve comunque pensare alla sua strutturazione futura, che la vede sempre più avvicinarsi, con la crescita dell’importanza del Direttorio e un progressivo distacco di Grillo, a una configurazione di partito tradizionale.
Resta infine il centrodestra, che per competere, analogamente al centrosinistra, deve essere unito e quindi avviare un serio percorso che ne coniughi le varie identità, considerando che la parte con connotazione più integralista e nazionalista, rappresentata da Fratelli d’Italia e Lega Nord, si mantengono minoritarie.
Salvini in questa situazione ha anche subito la perdita delle elezioni a Varese, storica roccaforte leghista.
In primo luogo, considerando anche la salute di Berlusconi, va individuata una leadership credibile, che sappia parlare a tutti gli elettori del centrodestra e abbia una visione ampia ed europeista.
Lo scranno lasciato dal leader di Forza Italia per guidare una coalizione è vuoto e molti d’ora in avanti proveranno a candidarsi, come pare stia facendo anche il governatore del Veneto Luca Zaia.
Ma anche questa è un’altra storia su cui torneremo.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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