27 Febbraio 2019 - 9.42

EDITORIALE – Reddito di cittadinanza: perché chi lavora prende come chi non fa niente?

Che il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia da sempre del Movimento 5 Stelle, non sia molto “apprezzato” dai cittadini delle Regioni del Nord è cosa nota. E le recenti elezioni in Abruzzo e Sardegna possono far pensare che questa riforma, peraltro non ancora operativa, non affascini più di tanto anche al Centro Sud.
Io credo non si possa essere pregiudizialmente contrari a forme di aiuto alle fasce più deboli della popolazione.
L’errore “concettuale”, a mio avviso, è quello che il Reddito di cittadinanza mescola un intervento di “welfare puro”, con il sostegno al reddito dei lavoratori in difficoltà.
Nel primo caso parliamo di cittadini che, per età o condizioni fisiche precarie, quasi sicuramente non riusciranno a reinserirsi nel mondo produttivo, ed in questo caso di tratta di pura “assistenza”; nel secondo caso di cittadini che o hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo, e quindi siamo nel campo delle cosiddette “politiche per il lavoro”, che con l’assistenza c’entrano come i cavoli a merenda.
Ma tant’è, in politica gli slogan sono determinanti, e cosa c’è di più accattivante della locuzione “reddito di cittadinanza”, che evoca il diritto di ogni cittadino di ricevere soldi dallo Stato per il solo fatto di essere italiano?
Il problema è che, da quanto si è capito fino ad ora, si sta introducendo uno strumento che, fra le altre cose, non tiene minimamente conto della realtà economico/salariale del nostro Paese
Mi spiego meglio.
Se i cittadini italiani avessero un reddito medio, che ne so, di 2000/2500  al mese, i 780 euro promessi sarebbero sicuramente adeguati al sostegno delle “povertà”.
Ma non tenere conto del livello dei redditi medi attuali dei lavoratori in attività, significa di fatto “dimettersi dalla realtà”, per perdersi in un sogno che può portare solo all’incremento del lavoro nero, e all’abitudine di vivere di sussidio, abbandonando la ricerca di un’occupazione.
Già durante le audizioni parlamentari l’Inps e l’Ufficio Parlamentare del bilancio avevano segnalato qual’ è la realtà, e cioè che circa il 30% dei contribuenti italiani dichiara al Fisco meno di 10mila euro l’anno.
Il che vuol dire che circa 12 milioni di persone  percepiscono, lavorando, un reddito equivalente a quello che dovrebbe essere assegnato ai percettori del reddito di cittadinanza.
La realtà del lavoro italiano mostra un vistoso “gap” con il resto dell’Europa. Pur avendo infatti raggiunto nel 2018 il tasso di occupazione “record” del 58,5%, il resto dei 15 paesi dell’area euro viaggia al 67,9%.   Quasi un 10% , che corrisponde a ben 3,8 milioni di posti di lavoro che mancano.
Questi dati li hanno messi in fila il Ministero del Lavoro, l’Istat, l’Inps, l’Inail e l’Anpai nell’annuale “Rapporto sul mercato del lavoro”, che espone i dati 2018, in rapporto a quelli dell’ultimo decennio.
Pur se il numero degli occupati, come accennato, ha raggiunto un record storico, il rapporto mostra che il lavoro è cambiato, nel senso che sono aumentati i part-time involontari e i contatti a termine.
Questo si traduce automaticamente in buste paga più leggere, in meno ore lavorate, in più contratti stagionali.
Lavori poveri insomma, che in parte spiegano il perché di quel 30% di italiani che dichiarano un reddito di 9.360 euro l’anno (780 al mese).
E la percentuale di questi contribuenti è inoltre disomogenea per aree geografiche, nel senso che al Nord si aggira intorno al 24%, al Centro al 28%, ma al Sud sale al 40%.
E se si guarda ancora più da vicino, coma ha fatto la Uil-Politiche territoriali  e lo Svimez, che hanno stimato le percentuali di possibile assegnazione del reddito di cittadinanza a livello regionale e provinciale, si scopre che a Crotone la percentuale dei contribuenti sotto i 9.360 euro raggiunge ben il 50%, e fin qua nessuna meraviglia, visto che a Foggia è del 44%, a Vibo Valentia del 47 e via così.  Ma le sorprese vere si trovano al Centro Nord.
In Lombardia dove la quota di cittadini che dichiarano meno di 780 euro mensili è del 23%, in Piemonte del 24%, in Toscana del 26%; e nel nostro Veneto del 25%, con la provincia di Rovigo al 28%.
E’ evidente che in una situazione del genere, per di più con il rischio di essere alle soglie di una recessione, non basteranno certo misure di tipo assistenzialista per risolvere il problema.
Certo potranno essere un “ristoro temporaneo” per molti, ma niente di più. Perché lo capisce anche un bambino che il problema, soprattutto in certe regioni, è e resta la mancanza del lavoro, e non saranno certo i “navigator”, precari anche loro, ma più fortunati, a farlo comparire dal nulla.
E per di più con l’obbligo per il percettore del sussidio di accettare un’eventuale offerta di lavoro solo se prevede uno stipendio base di almeno 858 euro mensili, come deciso dal Senato.
Il che pone la “domanda delle domande”.  Ammesso e non concesso che “d’incanto” si creino dal nulla milioni di posti di lavoro in zone dove non c’è tessuto industriale, perché un soggetto dovrebbe accettare un’occupazione, magari lontano da casa, con uno stipendio di 858 euro, quando può prenderne 780 stando in casa propria sul divano a guardarsi la televisione, o in spiaggia a prendere il sole?
E per di più esentasse, mentre quello derivante da lavoro “vero” sarebbe ovviamente tassato secondo le norme vigenti.
Per non dire che noi italiani non abbiamo certo il “senso civico” dei Paesi del nord Europa, e lo dimostra la corsa al cambio di residenza ed alle separazioni coniugali per accedere al reddito di cittadinanza, anche da parte di chi non ne avrebbe diritto.
Si ha quasi l’impressione che i rappresentanti del M5S credano di vivere in un Paese con un alto tasso di civismo, come la Danimarca o la Norvegia, e non nella “Repubblica Italiana”, dove l’arte di arrangiarsi è la regola, il “lazzaronismo” un modello, e dove “fregare” lo Stato è una filosofia di vita.  Come si può pensare  che il “reddito di cittadinanza” non sarà una ghiotta occasione per mettere in campo tutti gli artifici per aggirare le norme ed assicurarsi il sussidio?   Soprattutto in certe zone del Paese, dove il lavoro non c’è, altro che tre offerte, e dove le connivenze fra pubblica amministrazione e malaffare sono quasi istituzionalizzate.
Mi sembra evidente che il problema del lavoro non si risolve con un provvedimento assistenziale come il reddito universale.
Oltre a tutto perché  non si può proporre ai nostri giovani un modello di un’umanità in divano assistita e foraggiata da uno Stato gravato da un debito pubblico mostruoso. Sarebbe diseducativo e forse anche immorale.
VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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