1 Febbraio 2019 - 10.13

EDITORIALE – La lingua veneta è straordinaria: perché vergognarsi a parlarla?

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di Umberto Baldo

Qualche giorno fa ho chiesto a due amici se sapevano con quale parola del dialetto veneto si indichi la parotite, gli “orecchioni” tanto per capirci, che i meno giovani di noi hanno avuto tutti, ma che fortunatamente i vaccini hanno di fatto quasi azzerato. Si tratta di due persone che parlano abitualmente dialetto veneto, ma entrambi non hanno saputo darmi una risposta.

Sono certo che la “siora Maria” ed il “sior Bepi”, soprattutto se hanno una certa età, lo sanno, ma per quelli che invece lo ignorano, sappiano che si indica con il termine “Moltòn”.

Termine però che si usa anche per indicare un montone o una persona poco capace. Quindi si dice “l’è un molton”, per indicare una persona “che no ghe rìva”, e “el gà el moltòn” per dire che il soggetto è affetto dagli orecchioni.

Il fatto che la parola “moltòn” sia di fatto ormai sconosciuta ai più, mi ha fatto riflettere su quale “patrimonio linguistico e culturale” stiamo perdendo per il fatto che le nuove generazioni parlano sempre meno il “dialetto veneto”, o “lingua veneta” come io preferisco definirla. Con la conseguenza che, anche coloro che lo parlano, a poco a poco “perdono il vocabolario”, dimenticando per sempre il significato di moltissime parole, di modi di dire, di costruzioni del periodo.

Sgombro subito il campo, affermando che considero la lingua italiana forse lo strumento più importante di coesione della nostra Nazione.

E’ noto che, durante la prima guerra mondiale, uno dei problemi dei soldati al fronte fosse quello di capirsi; ma nel senso letterale del termine, in quanto un siciliano parlava un altro idioma rispetto ad un veneto, e ciò valeva un po’ per tutte le regioni. La diffusione dell’italiano questa “incomunicabilità” l’ha di fatto risolta.

Ma pur essendo un convinto sostenitore dell’italiano come lingua ufficiale della nostra Repubblica, sono un altrettanto convinto sostenitore della salvaguardia dei nostri dialetti, per evitare che scompaiano per sempre, diventando una delle tante lingue morte da studiare sui libri.

Ad oggi abbiamo ancora la fortuna di abitare in una Regione in cui ancora buona parte della popolazione conosce e parla il dialetto veneto, che per secoli ha avuto le caratteristiche di una vera e propria lingua.

Non va dimenticato infatti che, tra il Medio Evo e l’età moderna, la progressiva affermazione della Serenissima nel Mediterraneo Orientale determinò una diffusione senza precedenti del veneziano, che veniva capito e spesso parlato e scritto non solo nelle colonie direttamente amministrate da Venezia (come Zara, le Isole Ionie e Creta), ma anche nei territori limitrofi, quindi anche nei possedimenti degli Ottomani. Si può affermare che il veneziano fu una lingua internazionale, un po’ come l’inglese oggi. Era la lingua internazionale della navigazione, degli scambi commerciali, e persino della diplomazia: lo testimoniano da un lato i numerosi documenti conservati all’archivio di Venezia e in molti altri archivi; dall’altro le numerose parole di origine veneziana passate al croato, all’albanese, al greco, all’arabo e al turco. Ancora oggi i turisti veneti in vacanza in Grecia, restano spesso sorpresi dall’aria familiare di molti vocaboli, da ‘karekla’ (sedia), a ‘katsavidi’, cacciavite, fino a “pirouni” che nel dialetto greco di Cipro indica ‘forchetta’, cioè il veneziano ‘piron’. E parlo di lingua non a caso, in quanto alcune costruzioni del dialetto veneto si ritrovano in altri idiomi. Ad esempio il nostro «Sito mato? ha la stessa costruzione dell’inglese « Are you crazy? ». Analogamente la formula francese “je suis en train d’aller”, ricalca il veneto “mi son drio ‘ndar”. Sarà un caso se l’ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff, il vincitore di Lissa, venne preparato alla carriera imparando il veneto, lingua di comando della marina imperiale?

Quindi, proprio perché si tratta di un “patrimonio culturale” bisogna evitare che scompaia, e si badi bene è sufficiente che solo poche generazioni non lo parlino più abitualmente per innescare un inarrestabile processo di “oblio”.

Io, come immagino buona parte di voi, mi esprimo normalmente in dialetto per scelta. E l’ho sempre parlato, anche quando era evidente che molti genitori veneti parlavano solamente “in lengua” con i figli perché credevano che avere i pargoli che parlavano l’italiano “facesse chic”, quasi che parlare dialetto fosse un segnale di appartenenza alle classi subalterne.

La riprova che non è così l’ho sempre avuta girando per le aule dell’Università di Padova, dove, ovviamente quando non sono in cattedra, i docenti di origine veneta non si vergognano affatto a parlare in dialetto. Come pure è un’altra “bubola” l’idea secondo cui i ragazzi che parlano dialetto in famiglia, avrebbero poi difficoltà a scuola ad esprimersi ed a scrivere in un italiano corretto. Scrivere bene è un dono naturale, scrivere correttamente dipende solo dallo studio e dalle buone letture.

Le obiezioni di chi è contrario alla salvaguardia del dialetto veneto, ed in generale di tutti i dialetti parlati nelle varie regioni italiane, le sappiamo tutte. Si sostiene che si tratta di un idioma espressione di antiche tradizioni agro-pastorali, che di conseguenza si sta estinguendo perché vecchio e superato. Per non dire che si afferma che, di questi tempi, i giovani sarebbe meglio orientarli verso l’inglese che non verso la “lingua dei contadini”. Vero, ma una cosa non esclude l’altra, ed un ragazzo può esprimersi altrettanto bene nella lingua di Albione che nell’idioma di “San Marco”. Inoltre, secondo questi detrattori, non esiste un “dialetto veneto”, bensì il veneziano, il padovano, il veronese, il vicentino, il polesano, il bellunese ecc. E’ vero che ci sono espressioni ed accenti diversi ad esempio fra Chioggia e Lonigo, ma sono tutti presenti e vivi nella nostra realtà veneta. Ed infatti, pur con cadenze e modi di dire diversi, fra veneti ci si capisce sempre benissimo, indipendentemente da dove si abiti.

Mi rivolgo quindi soprattutto ai veneti più giovani, quelli che secondo le statistiche sarebbero i più inclini ad abbandonarlo: non abbiate timore di parlare in dialetto ai vostri ragazzi!

Non sottovalutatelo, non consideratelo espressione del “volgo”!

E spero si sia capito bene che non lo dico per questioni “identitarie”.

Occorre avere coscienza che i dialetti italiani sono in realtà vere e proprie lingue, perché si sono sviluppati autonomamente dal latino, senza passare dall’italiano, che resta e deve restare, nessuno lo nega, la lingua dell’unità nazionale.

E poi, non bisogna trascurare infine che la “pluralità linguistica” dà sempre una marcia in più!

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